Mimmo Cándito, La Stampa 27/6/2014, 27 giugno 2014
LA LIBIA BRUCIA PER LA SPARTIZIONE DEL GREGGIO E ANCHE L’ITALIA RISCHIA DI USTIONARSI
Sì, la Libia brucia. Per un Paese che appena ieri ha tenuto elezioni politiche, sembra insensato. Ma poi conti i voti, e nei seggi è andato appena un decimo dei 6 milioni di libici. Gli iscritti erano poco più d’un milione e mezzo, hanno votato in 600 mila; e comunque i 200 eletti rappresentano solo se stessi, perché – nell’illusione di impedire blocchi di potere – non erano state ammesse liste di partiti.
Brucia, certo. Nelle sceneggiate che accompagnano questi «ritorni alla democrazia», il rappresentante dell’Onu, Tarek Mitri, è perfino andato a congratularsi in una delle sezioni di voto. A Tripoli, naturalmente. Perché a Derna non si è votato, e nemmeno a Sebha. Troppo pericoloso; e lo stesso, in mille altri seggi di villaggi e piccole città (specialmente in Cirenaica e nel Fezzan, dove gli islamisti prima ti sparano e poi ti dicono che non devi votare). Ma lui si è congratulato, e intanto a Bengasi ammazzavano l’avvocatessa Salwa Abugaigis, leader della lotta per i diritti civili.
Viva la democrazia, certo. E però, come può non bruciare un posto dove la legge la dettano 1700 bande di miliziani l’un contro l’altro armati, e lo Stato è solo qualche palazzo istituzionale che ogni tanto viene preso d’assalto da una delle bande insoddisfatte della spartizione del denaro pubblico. Già, perché la gran parte di queste formazioni militari che hanno dato una mano a Francia e Inghilterra (e Usa) per detronizzare Gheddafi viene pagata dallo «Stato» per, diciamo, mantenere l’ordine.
Lo «Stato». Finora, la Libia bruciava dentro. Decine di morti ogni settimana negli scontri per strada, fucilate contro gli avversari, qualche lancio di granate anticarro, e comunque la vita continuava nel suo impossibile equilibrio. Ma ora questo fuoco comincia ad ardere di brutto, e la puzza e il fumo si allargano oltre i confini. Aveva cominciato la «battaglia del petrolio», con pozzi e raffinerie prese d’assalto: da 1 milione 700 mila barili al giorno, la produzione era precipitata a poco più di 130 mila, e quella che appariva una guerra per bande era poi, in realtà, il primo serio segno dell’attacco lanciato all’unità della Libia. Gran parte dei bacini di idrocarburi sono a Est, in Cirenaica; e la Cirenaica si sente derubata dal centralismo di Tripoli. Vuole autonomia, chissà anche indipendenza (ha già nominato un suo primo ministro «locale»), e poi è la regione dove sono acquartierati gli islamisti: Derna ne è la capitale, Bengasi una dépendance, e quella che era una delle primavere arabe si sta contaminando, anch’essa, in una guerra dove logiche tribali e tentazioni fondamentaliste si allargano a coprire il vuoto istituzionale del potere.
Autonomia, dunque, per una «più equa spartizione» dei petrodollari. Però, poi, la Cirenaica confina con l’Egitto, e il suo petrolio libico fa gola al nuovo Faraone del Cairo, al-Sisi; il quale nell’Operazione Dignità che un generale in pensione, Khalifa Haftar, sta conducendo a suon di cannonate contro gli islamisti a Bengasi (ma fino a Tripoli) vede un’ottima occasione per mettere un semaforo egiziano sui pozzi nominalmente libici, oltre che ottenere la pulizia della frontiera da qualsiasi rimasuglio di Fratellanza Musulmana.
Nel ri-disegno di una Mezzaluna che si sfalda dal Maghreb fino al Golfo, la nuova geostrategia regionale intreccia una lotta per l’egemonia che ormai non ha più frontiere. Haftar ha con sé l’Egitto e la Brigata Zintan (che sono 23 milizie dure come la pietra), contro gli stanno gli islamisti di Ansar al-Sharia e la Brigata Misurata (duri anch’essi come pietre, con 200 milizie, 40 mila uomini, e 800 carri armati rubati a Gheddafi).
Potrebbe essere un’altra faccia delle guerre di religione che si combattono nel vicino Oriente, ora che Gheddafi non li tiene più a bada. Ma noi prendiamo dalla Libia il 23% dei nostri idrocarburi, e abbiamo a mal galleggiare in acqua centinaia di migliaia di migranti che partono dalle coste libiche. Se la Libia brucia, rischiamo di ustionarci di brutto.
Mimmo Cándito, La Stampa 27/6/2014