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 2014  giugno 27 Venerdì calendario

PERCHÉ I TELECRONISTI URLANO? PERCHÉ ORMAI IN TELEVISIONE URLANO TUTTI

[Intervista a Bruno Pizzul] –

MILANO.
È stato l’ultimo gigante della telecronaca nell’età classica. Riusciva ad essere divertente senza esondare da un aplomb che in effetti era genetico contegno friulano. Diceva cose tipo: «Duello arcigno» o «Tocchetto beffardo»; «avvicendamento» invece di sostituzione. Per tacere del risaputo «Tutto molto bello» a sigillare una giocata di quelle che chapeau. Mentre vado ad incontrarlo nel baretto milanese sotto casa sua, la soggezione mi crivella di dubbi. Uno su tutti: vuoi vedere che ho sempre toppato a pronunciarne il cognome? Pìzzul o Pizzùl? «No, tranquillo: Pìzzul» mi rincuora. «In friulano significa piccolo. Pizzùl lo dicono solo a Trieste». E perché mai? «Perché lì son fatti così». Ricorro ad ogni astuzia pur di dargli del lei, ma lui non si beve le finte, esige il tu. Senza il tu non si va avanti. Non si gioca. E sia.
Negli anni 50 sei stato un centromediano con qualche ambizione. Poi ti rompi un ginocchio e le scatole. Prendi una laurea in legge, insegni lettere alle medie, dunque – anno ‘68 – passi il concorso in Rai.
«Ma come programmista. Mai avrei pensato di ritrovarmi tra i giornalisti sportivi. Li avevo in massima antipatia. Non erano stati teneri con me quando giocavo. Fu Paolo Valenti a convincermi: Conosci il calcio, l’hai praticato... Ci fecero un corso di di sei mesi. Era l’infornata dei Vespa, dei Frajese...».
Messico 70. Il tuo primo mondiale. Carosio era stato rimpatriato d’autorità per una presunta frase razzista contro un guardalinee etiope («Quel negraccio») che però non aveva mai proferito. Nei match della Nazionale lo scettro passò a Martellini. Da quel momento tu diventi comandante in seconda delle spedizioni Rai.
«Sì, ma era perfino più divertente. Potevo scegliermi le partite da commentare. Dopotutto, meglio raccontare Germania-Inghilterra che Italia-Belucistan, no?».
Da ragazzini ci chiedevamo: come diavolo faranno a riconoscere i giocatori?
«Beh, all’epoca della difesa a uomo era facile azzeccarne due in un colpo solo: quello che attaccava e l’altro chiamato a stargli addosso. Con la marcatura a zona la faccenda divenne un po’ più complicata. Ma è tutta questione di abitudine».
Ormai il look dà una mano: difficile sbagliarsi sul mohicano Balotelli.
«Già, ma ti assicuro che con le squadre orientali il chi è chi resta un’impresa».
Germania 74. Ti ritrovi a commentare il leggendario derby fra tedeschi dell’ovest e dell’est. Vinsero i comunisti 1 a 0.
«Gol di Sparwasser. Mentre esultava dissi qualcosa sui significati extracalcistici della cosa».
Casta allusione geopolitica.
«Ma in Rai non apprezzarono per niente. Venni redarguito».
Quattro anni dopo, rieccovi a dover spazzare la politica sotto il tappeto del neutralismo sportivo. Era il Mundial nell’Argentina dei generali macellai.
«A Buenos Aires c’erano già le madri in nero che sfilavano davanti alla Casa Rosada. E si sapeva che alcuni tra gli stadi da cui trasmettevamo erano serviti come campi di concentramento. Il clima era pesante di controlli. Una sera a cena un collega fece il nome di Videla e subito qualcuno ci prese da parte: Non siete qui per parlare di certe cose...».
Soprassediamo su Spagna 82 per evitare trionfalismi e sorvoliamo sul flop di Messico 86 che pure ti vide succedere a Martellini come primo microfono. Arriviamo a Italia 90.
«Fu l’ultimo Mondiale a dimensione umana. E l’ultima volta che meritammo la Coppa».
Però si affondò in semifinale contro l’Argentina.
«Giocare contro Maradona a Napoli fu una scelta disastrosa. Almeno all’inizio, tutto lo stadio era con lui».
Eppure nel clima funebre di quel dopo partita esplose il genio contemplativo di Pizzul. Le telecamere indugiavano sul golfo, il Vesuvio, le luci di Mergellina, Castel dell’Ovo, la luna, e tu...
«Io mi abbandonai a uno slancio lirico. In chiave consolatoria m’inventai qualcosa tipo: E vabbè non faremo la finale, ma di fronte a tanta bellezza... Non l’avessi mai detto. Volarono insulti: Ma finiscila, chi ti credi d’essere, Leopardi?».
Corea 2002 fu il tuo ultimo Mondiale in prima linea. Dopo di te, seppur con eccezioni, si impose una nuova generazione: la scuola dei duri, degli urlatori.
«S’era già affermata da un po’».
Da quando?
«Direi dai 70, con l’avvento delle tv private o commerciali».
Della Rai ruppero il monopolio anche sul piano dei codici espressivi.
«Quella lingua paludata, sì. Però, a suo modo, già 90° minuto l’aveva messa in crisi. Lanciando la figura del cronista territoriale».
La nouvelle vague dei Bubba, dei Carino dei Necco e compagnia.
«Facevano vedere e sentire i tifosi. E cominciavano a prendersi qualche libertà lessicale».
È mai esistita una scuola italiana della telecronaca?
«Ai miei tempi c’erano tre culture. La sudamericana: enfatica. La nordica: composta E la latina che cercava di mediare tra le due».
Raccontaci gli estremi.
«Avere vicino certi latinoamericani poteva essere duro. Strilli a parte, se prendevano un gol, come niente si sfilavano una scarpa e attaccavano a picchiarla sul tavolo. Quando non era il microfono».
Mentre gli algidi continentali?
«Spesso mi ritrovavo accanto a un collega belga. Quasi muto. Lo guardavo preoccupato: Avrà un problema in cuffia? Gli chiamo un tecnico? Invece no, era il suo stile. Sosteneva: Che bisogno c’è di dire “colpo di testa” se l’hanno visto tutti?».
Perché oggi fanno a chi urla di più?
«Perché devono vendere un prodotto. Ma non urlano soltanto loro, urlano tutti. A cominciare dai titoli del Tg. Poi, certo, nel calcio, la frammentazione e la velocità delle immagini inducono a un tono più concitato. Comunque anche a me dicevano che parlavo troppo e troppo ricercato».
Qual è l’innovazione linguistica di cui vai più fiero?
«Secondo Beppe Viola, fui il primo a dire Gol invece di Rete».
Da dove ti venne tanta audacia?
«Da quando giocavo, in campo dicevo Gol, mica Rete».
Oggi i 90 minuti vanno saturati di informazioni.
«Sì, sul prepartita, le valutazioni tecnicotattiche, il gossip... Ma perché raccontare il curriculum di un terzino dell’Azerbaigian se su internet trovi tutto?».
E poi c’è il linguaggio. Anabolizzato.
«È tutto un miracolo, una magia, un’invenzione. Si tende a strafare».
Fino a ritorni di dannunzianesimo. Su Sky, il bravissimo Fabio Caressa ha aperto Italia-Inghilterra con la frase: «Ora è il momento di riscrivere in cielo il nostro destino».
«Caressa è uno preparato e dotato di notevole autostima, ma cede troppo al fascino della formula preparata. Guarda che si capisce che te la sei scritta... gli ripeto. Oltretutto nelle dirette hai poco da programmare: c’è sempre qualcosa che gira storto».
Quanto calcio vedi in tv?
«Non ho Sky. Ne guardo un po’ alla domenica. Ma preferisco ascoltarlo alla radio. Accresce il fascino. Culla i ricordi. Aiuta la fantasia».

Marco Cicala, Venerdì 27/6/2014