Matías Marini, il Venerdì di Repubblica 27/6/2014, 27 giugno 2014
IL MEDICO CHE CERCA I RESTI DEI MORTI DI REGIME
L’État c’est moi. Di Luigi XIV la storia recente del Sudamerica ne annovera tanti. Infallibili, assoluti, pressoché divini. Assassini. Da dittatore paraguaiano, Alfredo Stroessner si autoinsediò nel 1954 e restò lì per ben trentacinque anni. La più longeva delle dittature sudamericane. Augusto Roa Bastos, il Cervantes della letteratura nazionale, a quei tempi prese a scrivere Yo, el Supremo (Io, il Supremo), capolavoro che narra la megalomania di José Gaspar Rodríguez, l’assolutista paraguaiano alter ego di Stroessner nell’Ottocento.
Rogelio Goiburú, 57 anni, non smette di ricordare suo padre, Agustín. Insieme andavano alla ricerca dei corpi mutilati dal regime di Stroessner, buttati dagli aerei sul fiume Paraná. Navigando tra quei cadaveri venuti a galla, come un Dante verso l’Averno, il giovane Rogelio non immaginò mai che, decenni dopo, sarebbe toccato a lui, medico come il padre, cercare tra le salme anonime del regime i resti mortali del babbo. Lo fa adesso – 25 anni dopo la caduta di Stroessner–, a capo del Dipartimento nazionale per la memoria storica; nella doppia veste di vittima e riparatore statale. A Rogelio tocca muoversi tra interlocutori fragili. Solo due anni fa, una polemica decisione del Parlamento destituì l’ex vescovo Fernando Lugo, scelto presidente nel 2008 per mettere fine all’annosa supremazia del Partido Colorado, dalle cui fila era sorto Stroessner. Un «golpe civile» contro il prete per restaurare il vecchio ordine colorado, una dittatura corporativa: ben sessantadue anni ininterrotti al potere, un record quasi da Pri messicano.
Ma la sottana di Lugo non era proprio immacolata: aveva dovuto riconoscere un figlio avuto con un’impiegata durante il suo ministero ecclesiastico. Altri sono spuntati dopo. Machismo e misoginia non stupiscono più di tanto nella terra degli indios guaraní. Orfani. Figli di vita che girovagano scalzi lungo viottoli di fango. Mamme, spesso indias, con gravidanze perenni e ceste stracolme di artigianato precolombiano. Inseguono i turisti fino alla scocciatura. Miseria dilagante. Istantanee di un Paraguay dove il maschio comanda le istituzioni, ma lascia vuota la sedia di casa. Zavorra che risale all’ottocentesca Guerra della Triplice Alleanza, quando la troika Brasile-Argentina-Uruguay massacrò il 90 per cento degli uomini in età riproduttiva. Una vera bancarotta demografica. Ma Rogelio si rifiuta di restare orfano. Vuole esumare suo padre per poi riseppellirlo sotto una croce degna. Dentro ogni fossa clandestina, Rogelio cerca indizi insieme al suo gruppo di professionisti della medicina forense. «È nostro compito identificare le salme e riscrivere la storia di questi compagni che vivono sepolti dall’oblio di una società ignara di questi crimini».
Su cinquecento scomparsi che mancano all’appello dai tempi di Stroessner, Rogelio ne ha finora rintracciato ventisette. Salme ancora anonime per mancanza di finanziamenti per studi del Dna. L’ufficio a lui intestato attende dallo Stato 75mila dollari, stanziati due anni fa e mai giunti a destinazione. Tasche vuote proprio nel Paraguay del boom della soia, con esorbitanti tassi di crescita negli ultimi anni? Niente soldi malgrado al potere ci sia ora un imprenditore, Horacio Cartés: restauratore della dinastia dei colorados, multimiliardario, conservatore, predicatore dell’antipolitica. Ogni tanto sgancia una barzelletta omofobica, puntualmente applaudita dai buffoni feudali del maschilismo. Possiede uno dei gruppi più ricchi del Paese, con tabacchifici, bevande, tessile, carne. «Chi soldi ne ha, non scende in politica per rubare». Leggenda metropolitana. Nel 2006 la Corte interamericana dei diritti umani condannò lo Stato per il suo «nulla di fatto» sui crimini del passato.
Intanto, ventisette corpi recuperati aspettano nella sala medica di Rogelio. Fa molto freddo. Tra questi, forse quello di papà. Un anno fa, a Goiburú figlio il cuore batté forte: credeva di aver ritrovato il babbo nel cortile di una vecchia questura di Asunción, la capitale. Indizio fuorviante. Durante il regime, Agustín faceva il medico in un policlinico statale. Si era specializzato in traumatologia. Da dottore, si rifiutava di firmare gli atti di morte dei detenuti politici torturati che la polizia voleva far passare come morti naturali. Ai ricoverati sotto sorveglianza dava aiuto per fuggire.
Queste disubbidienze lo condannarono all’esilio, verso la precaria democrazia argentina, nel 1960. Scelse come dimora la tropicale Posadas, piazzata esattamente dirimpetto a Encarnación, città natale del dittatore, separati solo dalle acque binazionali del Paraná. Agustín non voleva perdere di vista il suo bersaglio.
Arrivò la scelta della resistenza armata. Giocare il tutto per tutto. «Da qui se ne esce solo con violenza» sparò, e si arruolò nel Movimento Popolare Colorado, una scissione eretica del politburo partitocratico. Aguzzino e vittima, tutti e due colorados.
Per attirare l’attenzione mondiale sui crimini di Stroessner, il bravo medico tentò il fallimentare dirottamento verso l’Uruguay di un aereo con destinazione Encarnación. Era il 1962 e a Punta dell’Este si sarebbe tenuto un megavertice di Nazioni Unite. Ne uscì indenne.
Anni dopo, uno scivolone e scattò la mannaia: i servizi segreti sequestrarono il dottore mentre pescava nelle acque argentine del Paraná. Dicono che il dittatore l’interrogò di persona. Ma alla faccia del Supremo, un Agustín gracile coi tratti deturpati fuggì dal carcere: durante tredici mesi scavò un tunnel con un semplice cucchiaio. Niente resa. Tanta cocciutaggine. Ad accogliere l’eroe in fuga fu subito l’ambasciata del Cile, un’altra piccola isola di tentennante democrazia, con l’esordiente amico Salvador Allende. Di lì a poco il temerario tornò in Argentina. C’era la fugace seconda primavera peronista e all’interno dell’Università de La Plata l reduce di guerra ingaggiò militanti esuli per pianificare un attentato a Stroessner: un camioncino zeppo di esplosivi nel tragitto quotidiano del dittatore, da casa al lavoro. Numerosi tentativi, tutti rovinosi. Era il 1974 e, a pochi chilometri da Agustín, un altro esiliato celebre, Roa Bastos, perfezionava a Buenos Aires le ultime bozze di Yo, el Supremo.
Di rifugiati paraguaiani l’Argentina ne ricorda di meno dignitosi. Ucciso a colpi di pistola il vicepresidente Luis María Argaña, nel 1999, l’ex militare e candidato presidenziale Lino Oviedo fuggì in Patagonia. Apprendista stregone, il latitante aveva tentato l’ennesimo colpo di Stato.
Mentre papà Agustín era sorvegliato giorno e notte, Rogelio studiava medicina in un ateneo argentino. Prima che si laureasse, venne il golpe di Videla. Lo studente finì detenuto. (Roa Bastos fuggì a Parigi). «Rilasciatelo e prendete me al suo posto» fu la veloce controfferta di suo padre. Proposta disattesa. Il fiero nemico intimo di Stroessner fu sequestrato un anno dopo, mentre tornava dall’ospedale dove lavorava. Il gatto Goiburú, gracile, spigoloso, si giocò la sua ultima vita. Tutto finì di botto, a soli 47 anni. «Rivendico la lotta di mio padre» dice oggi Rogelio. «Senza guerrieri come lui oggi non saremmo in democrazia». Uno spettro anonimo, insepolto, si aggira per le strade del Paraguay. Stroessner, invece, una tomba ce l’ha: dal 2006 riposa in pace nella capitale del Brasile, dove visse un esilio di velluto fino ai suoi 94 anni.
Matías Marini