Giuseppe Pollicelli, Libero 27/6/2014, 27 giugno 2014
«PERCHÉ CI CHIUDONO A CHIAVE?» IL BIMBO CHE VIVE DIETRO LE SBARRE
Ai bambini piacciono le chiavi. Sia quelle vere, per come tintinnano quando qualcuno agita il mazzo che le contiene, sia le chiavi giocattolo, ciascuna di un colore diverso, con cui si aprono le porte di quelle casette in cui si possono infilare degli oggettini a forma di numero o di animale. C’è però almeno un bimbo, in Italia, che le chiavi non le ama per niente. Forse addirittura le detesta. Non sappiamo come si chiami, ma siamo a conoscenza del fatto che ha sei anni e quattro mesi e che abita in una cella del carcere di Sollicciano, a Firenze. Di recente, alle educatrici che lo seguono, ha domandato: «Perché mi chiudono a chiave, la sera, quando torno a casa?». E da qualche tempo, ogni volta che sente il rumore delle chiavi che blindano la porta della cella in cui vive, si mette a piangere. Anche se è tuttora il detenuto più giovane di quel carcere, lui nella casa circondariale di Sollicciano risiede da quando era davvero piccolissimo: dall’età di due anni e nove mesi. E prima ancora era vissuto in una prigione in Puglia, per la precisione da quando aveva un anno e un mese: appunto l’età in cui un mazzo di chiavi dovrebbe rappresentare soltanto un’occasione di divertimento. Non è stato così per il nostro bimbo, che chiameremo con il nome di fantasia di Giacomo (come ha fatto la testata che ieri si è occupata per prima del suo caso, il “Corriere Fiorentino”).
Egli, pur essendo privo di qualunque colpa, associa le chiavi, e il metallico suono che esse producono, a quella sorta di ergastolo in cui è consistita finora la sua breve esistenza. Un’esistenza iniziata nel 2008 a Bari, città dove Giacomo è nato e da cui proviene sua madre, e presto proseguita – gia nel novembre del 2010 a Firenze. La mamma di Giacomo, oggi 42enne, era stata arrestata nel 2009, proprio a Bari, per un reato estremamente grave: sfruttamento della prostituzione. È da quel momento che la casa di Giacomo è divenuta la galera. Da quando lui e sua mamma sono a Firenze, lei in quanto condannata e Giacomo in veste di ospite, occupano una cella della sezione femminile del carcere di Sollicciano, ed è in quel luogo che i due trascorrono la quasi totalità del loro tempo assieme. Lì Giacomo ha cominciato a fare tutto ciò che gli altri bambini imparano tra le mura domestiche o all’aria aperta: camminare con un’andatura sempre meno incerta, articolare discorsi via via più complessi, riconoscere qualche lettera dell’alfabeto. Certo, le agenti di polizia fanno la loro parte per intrattenere Giacomo, che in questi anni ha frequentato l’asilo e la scuola materna e si appresta ora ad andare in prima elementare. E soprattutto ci sono i volontari che, quotidianamente, si adoperano per rendere migliori le giornate dei cosiddetti “bambini detenuti senza condanna”: allestendo un piccolo parco giochi, rimpiazzando i portoni di ferro con delle porte di legno, dipingendo le pareti del carcere in modo da renderle più simili a quelle di una normale casa. Ma una galera resta una galera, e ora che Giacomo si è fatto più grande, e più consapevole, il dover trascorrere tutte le sere e tutte le notti dietro le sbarre è diventato insopportabile. Specialmente
da quando gli altri due ragazzini che, fino a poco tempo fa, vivevano con le loro madri a Sollicciano sono andati via, ospiti di case famiglia. Se ancora alcuni mesi or sono, a un amichetto che voleva sapere dove abitasse, Giacomo aveva detto, senza farsi eccessivi problemi, «Casa mia è nel carcere», oggi rispondere così gli costerebbe molta più fatica. E forse, per la troppa vergogna, una risposta del genere non la darebbe affatto, inventandosi un domicilio più consono a un bambino di sei anni. Se a Firenze, come pareva dovesse succedere e non è poi accaduto, fosse stato realizzato un Icam, un istituto a custodia attenuata per le detenute madri, Giacomo e la mamma sarebbero potuti andare a vivere lì. Invece, anche a causa della pena elevata che la madre del bambino deve scontare, sono dovuti restare a Sollicciano. Il padre di Giacomo si trova a sua volta in regime di detenzione e il fatto che adesso alcuni parenti di parte paterna si siano detti disponibili a prendere Giacomo in affidamento (entro i primi di luglio si pronuncerà in merito il Tribunale per i Minorenni) non tranquillizza nessuno, trattandosi di uno scenario pieno di incognite. Non resta che augurarsi il meglio. E sperare che storie come questa si rivelino chiavi in grado di aprire i cuori di ogni genitore, specie di quelli che abitualmente delinquono, mostrando loro quanto sia orribile far ricadere su un figlio innocente le proprie colpe.