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 2014  giugno 27 Venerdì calendario

L’ARGENTINA E I SUOI CONTI: UN ETERNO TANGO SUL BARATRO


No, non hanno dimentica­to. Dal drammatico default del 2001, con quell’insopportabile carico di tragedie umane, gli ar­gentini hanno smesso, parafra­sando Osvaldo Soriano, di «pensare con i piedi». Non ba­sta la chirurgica crudeltà con cui Messi depone la palla in gol, alimentando la ola albiceleste in tutte le piazze: è solo una tre­gua, un assaggio di assenzio che libera la mente per novanta minuti. L’ansia resta, radicata appena sotto il cuore. Roba di stomaco che risale fino alla te­sta, non appena sul partido si spengono i riflettori, per ricor­darti che c’è un’altra bancarot­ta nell’aria, un altro punto inter­rogativo sul futuro di un intero popolo abituato a vivere perico­losamente, sempre sul filo del rasoio. Un po’ come Marado­na: dribbling come poesie di un Borges in pantaloncini, ma an­che l’inferno della cocaina.
Gli argentini sanno di vivere in una terra ricca, ricchissima. Hanno tutto: gas, petrolio, pam­pas sterminate, sole e vento. Ne­gli anni ’30 prestavano quattri­ni a todos . Se lo potevano per­mettere. Settant’anni dopo,era­no diventati quelli che non pa­gano i debiti facendo piangere­tra i tanti- anche 200mila italia­ni. Umiliati,dal Nord di Salta al­l’estremo Sud di Rio Gallegos, da un buco da 100 miliardi di dollari, il punto terminale di po­litiche economiche dissenna­te. Hanno voluto l’abbraccio mortale col dollaro, un folle rap­porto di 1 a 1, per sparare a pal­lettoni contro l’inflazione. Sba­gliando completamente il ber­saglio. Nel ’98 la Russia va a gambe all’aria,il Sud-Est asiati­co barcolla e, soprattutto, i riva­li brasiliani svalutano il real: i ca­pitali scappano e le merci argen­tine - troppo care - non le vuole più nessuno. Si rompe il rappor­to paritario col dollaro, in un di­luvio di tasse e di tagli alla spesa che strizzano i consumi e apro­no la strada alla recessione. Poi altre misure disastrose, quelle mai dimenticate da coloro pie­gati dalla sciagura del corralito , il piccolo recinto che soffoca in un cappio i risparmi depositati in banca, impedendone il ritiro e lasciandoli dissanguare dalla svalutazione-monstre del pe­so. Arriva il default. Per tanti, troppi, è l’inizio di una storia di miseria senza nobiltà. Forse mai finita.
La romantica indolenza che è l’essenza del tango non spie­ga perché l’Argentina sia spes­so nei guai. Gli ultimi 15 anni, scanditi dall’arrivo alla Casa Ro­sada di 5 presidenti, sono stati un continuo pencolare tra la condanna al dramma e la resur­rezione. Fra il 2003 e il 2011 il Pa­ese è cresciuto in media del 7-8%, intascando ricchi divi­dendi dalle materie prime agri­cole e potendo contare sulla ri­fioritura di consumi e investi­menti legata alla rimozione dei vincoli di cambio e al calo dei tassi. Poi, nel 2012, la frenata: il surplus commerciale si sgon­fia, i prezzi si dilatano e la bollet­ta energetica va alle stelle. Se an­drà bene, il 2014 si chiuderà con un +1%. Il governo ha reagi­to col solito pugno autoritario, nonostante Cristina Kirchner sia l’espressione della sinistra peronista. Poco più di un anno fa, un milione di argentini incaz­zati, con pentole e padelle in mano, si è riversato nelle strade per urlare «Bugiarda» alla presi­denta. Accusata, peraltro, an­che da un’altra Christine, la La­garde del Fmi, di aver barato sul Pil e, soprattutto, sull’inflazio­ne. Un 7% secondo le stime uffi­ciali, il 30% secondo famiglie e imprese. La Kirchner ha abbas­sato la testa e corretto il tiro.
Poi, però, è arrivata dagli Usa la sentenza che obbliga Baires a risarcire, se non si troverà un ac­cordo entro fine mese, 1,3 mi­liardi di dollari agli hedge fund che non hanno aderito al taglio di due terzi del debito. Soldi che l’Argentina non vuole scucire: se lo facesse, sarebbe costretta a pagare 15 miliardi per i bond non rientrati nel concambio. Quattrini che non ha: sarebbe default, sarebbero ancora mi­lioni a gridare, come nel 2001, «Que se vayan todos». Tutti a ca­sa. Non hanno dimenticato.