Claudio Lindner, L’Espresso 27/6/2014, 27 giugno 2014
UNO SPARO LUNGO CENT’ANNI
[Colloquio Con Carlo D’asburgo] –
Si chiama Carlo come il nonno, Carlo I, l’ultimo imperatore. Quello che raccolse l’eredità di Francesco Giuseppe, morto nel 1916 in piena prima guerra mondiale, e scappò in esilio alla fine del conflitto quando l’Austria ridimensionata divenne una Repubblica.
Oggi Carlo D’Asburgo Jr. è il capofamiglia, monarca senza regno che funge da portavoce degli oltre 500 membri della dinastia austro-ungarica. Ha vissuto l’adolescenza in Baviera ed è rientrato a Vienna nel 1979 (il veto ai regnanti cadde nel 1968) per fare il militare. Alla fine degli anni Novanta è stato europarlamentare per il partito popolare austriaco. Oggi guida Paneuropa, un’associazione politica già presieduta dal padre Ottone che si batte per una confederazione europea. E lavora per Blue Shield, l’organizzazione che lavora alla salvaguardia del patrimonio culturale minacciato dalle guerre.
Separato dalla moglie Francesca Thyssen-Bornemisza, D’Asburgo ha due figlie, Eleonora Elena e Gloria Maria, e un figlio, Ferdinando Zvonimiro. Ha annunciato la sua presenza il 28 giugno a Sarajevo in occasione degli eventi organizzati nella città bosniaca per il centenario dell’attentato nel quale morirono il suo antenato Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, dal quale scaturì la Grande Guerra. L’incontro con l’erede della dinastia avviene nella sede di Paneuropa a Vienna.
Carlo D’Asburgo, cent’anni dopo che giudizio dà lei dell’attentato di Sarajevo?
«Quello di Gavrilo Princip non è stato solo un atto criminale, ma un atto criminale politico con la seguente logica: elimino coscientemente colui che potrebbe diventare il prossimo imperatore austro-ungarico e che vuole trattare i popoli slavi in un modo diverso, ma certamente non in linea con gli interessi della Serbia. Francesco Ferdinando infatti, a differenza di Francesco Giuseppe, riteneva giusto abbandonare il dualismo Austria-Ungheria e pensava ci dovesse essere una posizione speciale nell’impero per gli slavi. Ma Belgrado voleva avere per sé il ruolo di guida dei popoli slavi con l’appoggio dei vicini russi»
Alla fine di luglio 1914 l’Austria mandò un ultimatum molto severo al governo serbo, chiaramente preludio a una dichiarazione di guerra.
«Ancora oggi si fa polemica sul punto dell’ultimatum secondo cui la polizia austriaca avrebbe dovuto collaborare con quella serba per trovare i colpevoli. Traduciamolo ai giorni nostri, ricordiamo per esempio l’ultimatum americano prima di entrare in Afghanistan, certamente più forte di quello di Vienna: si disse che c’era stato un atto criminale nei confronti degli Stati Uniti e che quindi le autorità americane dovevano partecipare alla caccia ai colpevoli».
Bush jr. più duro di Francesco Giuseppe?
«Sì, ma la guerra ci sarebbe stata comunque. Se non a Sarajevo, ci avrebbe pensato qualcun altro magari tre settimane dopo quel 28 giugno, in Galizia o al confine con la Russia. Se devo trovare un colpevole, questo è il nazionalismo, che ha portato sia alla prima sia alla seconda guerra mondiale. Anzi, vado oltre...»-
Cioè
«Non si può dividere la prima dalla seconda guerra, direi che è stata la guerra dei 31 anni, dal 1914 al 1945, con un’interruzione in mezzo».
Chi ha le maggiori responsabilità, l’Austria-Ungheria, la Serbia, la Germania?
«La penso come lo storico australiano Christopher Clark, secondo cui non si può parlare di uno Stato o di una persona responsabile, ma di comportamenti collettivi sbagliati: un nutrito gruppo di persone, capi di stato e governanti hanno agito come sonnambuli, non si sono resi conto di cosa stessero combinando, non pensavano che sarebbe scoppiato un conflitto, o quanto meno ne avevano sottovalutato enormemente le dimensioni».
Avete parlato in famiglia del Centenario, cosa dire, a quali iniziative partecipare?
«Come erede capofamiglia sono stato interpellato da decine di membri della dinastia, sparsi per il mondo, mi hanno chiesto come comportarsi e cosa dire, ma siamo soprattutto noi fratelli a intervenire e a partecipare agli eventi organizzati da quest’anno in avanti. Molti si tengono in Austria, ma anche nei Balcani e nella stessa Serbia».
In Serbia molti sono favorevoli a riabilitare la figura di Gavrilo Princip.
«Ho letto e visto, ci sono strade e monumenti dedicati a lui. Ma la cosa non mi crea problemi. Vado spesso in Serbia a parlare dell’adesione all’Unione europea. A proposito di celebrazioni, vorrei ricordarne una che ricorre quest’anno e che è stata del tutto ignorata. Sono passati 1200 anni dalla morte di Carlo Magno (28 gennaio 814): fu lui a porre le basi per la formazione dell’Europa di oggi. Dobbiamo a lui se esistono un Occidente cattolico e un Oriente ortodosso. Aggiungo che i sei Paesi fondatori della Comunità europea ricalcano esattamente l’impero di Carlo Magno. E sono convinto che oggi non ci sia una crisi europea, ma una crisi di singoli Stati».
Si riferisce per esempio alla Grecia?
«Sì a Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna. Le uniche istituzioni che hanno funzionato e reagito bene sono quelle europee, ma le soluzioni devono essere trovate da ciascuno Stato, senza discussione, la Ue può solo aiutare. Consideriamo per esempio la diversa reazione in Portogallo e Grecia: il primo ha fatto progressi enormi e ha capito come bisognava intervenire con l’appoggio di Bruxelles, per la seconda non si può certo dire la stessa cosa».
In alcuni Paesi europei la Germania torna a far paura, la si può paragonare a quella del 1914?
«No, perché le condizioni sono totalmente diverse. La Germania del 1914 era convinta di essere superiore, dominante, oggi tra i tedeschi questa concezione non esiste proprio. La democrazia è forte, la politica funziona. E, da ex europarlamentare, posso dire che l’Europa ha strumenti regolatori tali da impedire che gli Stati più importanti diventino dominanti. Il problema, piuttosto, è un altro: ci sono persone che danno troppo per scontati i principi democratici, mentre bisogna sempre ribadire che non sono ovvi. Ci sono diritti per i quali bisogna continuare a lottare e non si possono considerare automatici»
Si riferisce forse a quanto accade in Ucraina?
«Certo, ci sono Paesi democratici che quando entrano in gioco interessi nazionali, lo dimenticano facilmente. Ritengo la crisi ucraina la più pericolosa del dopoguerra dopo quella di Cuba».
L’Europa dovrebbe essere più forte.
«In Europa è indispensabile un’unità politica e di difesa, quella monetaria non basta più. L’esperienza del Medioevo insegna che, quando si è un ricco commerciante, si hanno tanti soldi ma poche armi, alla fine si rischia di essere aggrediti e soccombere».