Elisabetta Flamini, Style 27/6/2014, 27 giugno 2014
QUESTA DONNA È UNA BOMBA
[Giorgia Aureli]
Attività sui generis, quella di Giorgia Aureli, non particolarmente ambita, ammettiamolo, dalle fanciulle in fiore. Ma la giovane, nata in provincia di Macerata, la svolge con un’abnegazione, che le varrà anche un primato: quello di unica donna sminatrice nel contingente italiano «Brigata Granatieri di Sardegna», 1100 unità. In Libano per la prima volta nella base militare “Millevoi” di Shama, vicino Naquoura, ha svolto questo suo primo incarico per sei mesi, dal 13 ottobre 2013 fino a metà aprile 2014. La incontriamo il 23 marzo di quest’anno lungo uno dei più recenti tratti bonificati dalle mine T4 anti-uomo sulla cosiddetta «Blue Line», in occasione di una cerimonia presieduta dal generale Maurizio Ricco, atto conclusivo di mesi di incessante lavoro per l’apertura di un nuovo varco, all’interno di un’area in terra libanese, interamente minata da Israele nel 1970 e poi nel 2006 con l’ultima ritirata. Alla destra e alla sinistra dei varchi le mine ci sono ancora. Siamo sul confine: a nord il Libano meridionale, con costruzioni e strade imperfette, vegetazione selvaggia; più a sud Israele, con la sua urbanistica impeccabile: le case chiare, le strade ben definite, i campi coltivati con rigore. Con il plotone «Minex» della Compagnia Genio del Sesto Reggimento la giovane ha contribuito alla bonifica in questa zona di un corridoio lungo 70 metri e largo due, che, secondo una definizione Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) conduce alla cosiddetta posizione AP 265. Trenta le mine antiuomo rinvenute e distrutte dal plotone, tra cui una scovata da lei. Ma Giorgia, com’è arrivata lì? Sorridente e garbata, ce lo racconta, pronta anche a darci una dimostrazione pratica del suo operato, ma solo dietro consenso dei superiori. Nessuna iniziativa privata, come da regolamento. Come nessuna foto senza autorizzazione, data l’estrema segretezza delle operazioni: foto private potrebbero inquadrare postazioni, che, se intercettate da un contingente nemico, potrebbero nuocere al buon esito delle operazioni stesse. Siamo, infatti, in un’area in cui non è mai stato siglato un vero cessate il fuoco, ma al momento vige solo una tregua, sancita dalla risoluzione Onu 1701. E la tensione è palpabile: a pochi metri di distanza da noi, al di là del fitto reticolato della technical fence israeliana, una barriera corredata di videocamere e sensori che captano subito una presenza, cui fa seguito una striscia di terra pettinata – la soft soil – per intercettare ogni minima orma lasciata dal suo attraversamento, israeliani nascosti in postazioni invisibili ai nostri occhi ci filmano, sanno già tutto di noi visitatori, preventivamente avvisati dalla Difesa del nostro arrivo e informati sulle nostre identità.
Giorgia, quali le tracce in passato di questa tua insolita vocazione?
«La mia passione risale a quand’ero bambina: mi innamorai delle Forze Armate guardando la parata del 2 giugno nella piazza della mia città: ho capito che questo era un mondo dominato da regole, che mi piaceva e mi piace proprio per questo».
Così, hai intrapreso la carriera militare: ma come si diventa deminer?
«Con un corso speciale organizzato in caserma sulle mine antiuomo della durata di tre mesi e mezzo, che io ho frequentato lo scorso anno: ci hanno insegnato a individuarle, distinguerle e affrontarle. Le mine antiuomo, inamovibili e intoccabili, vengono fatte brillare sul sito, ma, prima dell’intervento degli artificieri, entra in gioco lo sminatore».
Come si procede su questo sito?
«Qui il deminer lavora per mezz’ora, riposandosi poi due ore e avvicendandosi con gli altri del gruppo: 16 i ragazzi che si alternano in una giornata, tra cui anch’io».
Tecnicamente, come si fa?
«Indossata la cosiddetta tuta antiframmentazione e un elmetto, analizzo il terreno con il metal detector. In caso di segnale, massima attenzione e comincia la bonifica manuale. Perforo così la zona indiziata con una sonda, poi tolgo la terra con una paletta attorno alla supposta mina e, infine, rifinisco l’oggetto con un pennello. A questo punto, arriva il comandante di squadra per farla brillare sul sito, mentre lo sminatore segue a distanza di sicurezza che la mina venga distrutta».
Inevitabile chiedertelo: non hai paura?
«No, non ne ho. Certo, ci vuole coraggio, attenzione e sangue freddo, ma questo lavoro è cosi gratificante che ti ripaga di tutto».
Nei lunghi mesi lontana da casa, ci saranno stati momenti bui: in che modo hai trovato conforto?
«Nelle giornate più brutte penso agli affetti, alla famiglia, agli amici lontani, e che ritroverò tutta la tranquillità, che qui ovviamente non c’è, appena di nuovo a casa».
Le donne con questa specializzazione sono davvero poche: venite addestrate in modo diverso dagli uomini?
«Nessuna differenza: l’addestramento è lo stesso».
Certo sarai di parte, ma che cosa stimi in particolare della Difesa all’estero?
«L’attenzione per il sociale: costruiscono scuole, bonificano l’acqua, si occupano di medical care, qui presieduta dall’ottimo colonnello Mauro Stefano Riva. Mentre quest’anno il maggiore Giuseppe Canzano ha persino riorganizzato nel cosiddetto “Mosan Center” corsi di judo e karate per 25 bambini disabili tra i 6 e i 12 anni: un successo. E che gioia vederli sorridere, forse per la prima volta».
Ma, tornando alle mine, se ne trovi una sul campo, a che pensi?
«Penso solo che sono un passo più vicina al posizionamento del Blue Pillar». Ovvero i barili in cemento e lamiera di colore blu, siglati «UN» e alti due metri, per esser visibili anche dall’alto, apposti solo lungo i corridoi bonificati che andranno appunto a costituire la «Blue Line», stimata a 118 km di lunghezza e che deriva il suo nome proprio da questi. Dei 500 barili previsti, ne sono sistemati fino ad oggi 250. E il loro posizionamento è una delle principali ragioni di vita di missioni speciali e pericolose come questa, in un contesto che si svolge parallelamente ad un prezioso lavoro di mediazione tra due popoli che si odiano. Ma molto prezioso è dunque il lavoro di giovani come i nostri sminatori, come Giorgia, che rischiano la vita per evitare la morte. Per segnare un nuovo punto sulla carta topografica, certo. Ma magari anche solo per tener fede a un sogno d’infanzia.