Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 27 Venerdì calendario

VADO, PRENDO MAZZETTE E TORNO


Le inchieste giudiziarie riescono davvero a fare pulizia, a spazzare via i politici corrotti? Oppure l’Italia è condannata a farsi governare da caste di inquisiti, impermeabili agli scandali? Mentre le indagini sul Mose di Venezia e sulle cupole degli appalti di Milano rilanciano l’allarme su una corruzione massiccia e sistematica, una ricerca documentatissima misura per la prima volta l’effettivo livello di ricambio della nostra classe politica, a partire dal terremoto giudiziario di Mani Pulite. I risultati non sono confortanti: persino dopo lo storico ciclo di inchieste con migliaia di indagati del 1992-1994, più di un terzo dei politici inquisiti di livello nazionale (per l’esattezza il 36 per cento) è riuscito a farsi ricandidare in almeno una delle elezioni successive. E il 17 per cento, cioè uno su sei, ce l’ha fatta: passata la bufera legale, ha riconquistato una dorata poltrona in Parlamento. Così sono tornati in politica condannati come Umberto Bossi, Paolo Cirino Pomicino, Antonio Del Pennino o Alfredo Vito. Così come Cesare Previti e Marcello Dell’Utri, tra gli altri.
La ricerca è stata condotta da un giovane studioso italiano, Raffaele Asquer, che vive e studia a Los Angeles, dove sta completando un dottorato in scienze politiche alla Ucla, la prestigiosa università della California. Aiutato da alcuni tra i maggiori esperti italiani, il ricercatore ha esaminato il rapporto tra politica e giustizia con metodi scientifici, raccogliendo una montagna di dati sul rientro in politica non solo dei parlamentari, ma anche degli amministratori locali (comunali e regionali) che erano stati inquisiti nelle maxi-inchieste di Tangentopoli. Ecco cosa ha scoperto.
DUECENTODICIANNOVE SOTTO ACCUSA
Il lavoro di Asquer parte dall’elenco completo dei 163 onorevoli e 56 senatori dell’undicesima legislatura (1992-1994) che sono stati accusati formalmente, con il sistema allora in vigore delle richieste di autorizzazione a procedere (un privilegio abolito proprio sull’onda delle indagini di Mani Pulite), dei reati di corruzione, concussione, finanziamento illecito, abuso d’ufficio con arricchimento patrimoniale, truffa per incassare finanziamenti pubblici, ricettazione di tangenti. Lo studio documenta tutti i casi di rientro in politica nei 15 anni successivi, analizzando le elezioni locali e nazionali dalla fine del 1993 al 2008. Il risultato più inatteso, come osserva Asquer, è che «i parlamentari inquisiti sono stati ricandidati e rieletti in proporzioni molto maggiori rispetto agli amministratori locali; il rientro in politica, in particolare, è stato più facile a livello nazionale che nei consigli regionali, mentre si è rivelato più difficile nei comuni». Più i politici sono importanti, dunque, più diventano intoccabili. Dal 1994 al 2006 continua a crescere il numero di indagati che riescono a farsi rimandare a Roma.E solo nel 2008 c’è la prima inversione di tendenza: le ricandidature sono dimezzate e unicamente dieci inquisiti di Tangentopoli riescono a rientrare (o a restare) in Parlamento.
I risultati della ricerca non sorprendono Alberto Vannucci, che insegna all’università di Pisa ed è uno dei più autorevoli studiosi della corruzione in Italia: «Il passare del tempo attenua l’effetto negativo sulla reputazione del politico. Gli elettori tendono a dimenticare le accuse, anche perché i processi spariscono o quasi dai mezzi d’informazione, e per i capi dei partiti cadono i freni inibitori: da un lato si riduce il rischio di essere danneggiati da candidature imbarazzanti, dall’altro cresce la tentazione di godere delle reti clientelari di potere e di consenso costruite dagli indagati. Che spesso beneficiano del potere di ricatto verso i complici non indagati. Non a caso la tendenza s’inverte tra il 2007 e il 2008: è il periodo della campagna "Parlamento pulito" e dei primi libri sulla casta. Solo allora chi decide le candidature comincia a temere che certi personaggi facciano perdere più voti di quanti ne portino».
a volte ritornano a roma
Il problema dei riciclati in politica è tutt’altro che accademico. I principali arrestati delle nuove inchieste milanesi (Expo, appalti nucleari e tangenti sanitarie) sono tutti pregiudicati della Tangentopoli di vent’anni fa: Gianstefano Frigerio, dopo aver subito tre condanne definitive come tesoriere della Dc lombarda, è stato eletto parlamentare dal 2001 al 2006 con Forza Italia; l’industriale Enrico Maltauro, che aveva confessato e patteggiato un anno di pena (sospesa) per le mazzette di Malpensa 2000, è tornato a guidare l’azienda di famiglia; Primo Greganti, il cassiere delle tangenti del vecchio Pci, si è riciclato come faccendiere delle cooperative rosse. Anche Piergiorgio Baita, il manager che ora ha confessato dieci anni di fondi neri e corruzioni per il Mose, era stato pesantemente coinvolto nella Tangentopoli veneta del 1992, uscendone indenne grazie alla prescrizione. In questi mesi, quando sono stati riarrestati, nessuno di loro occupava cariche elettive, eppure gli atti d’accusa documentano che sono rimasti tutti al centro di troppi affari illegali collegati alla politica. Ma il caso Expo e le nuove Tangentopoli riportano alla ribalta personaggi che non entrano nella ricerca della Ucla, che riguarda solo la riconquista di cariche elettive.
Entro questi confini, lo studio sfata infatti l’opinione secondo cui le indagini per corruzione servirebbero a poco o niente. «I dati dimostrano che i politici indagati nel 1992-94 hanno avuto minori probabilità di essere ricandidati nelle cinque elezioni successive rispetto ai non indagati», spiega Asquer: «Tra i parlamentari inquisiti, in particolare, c’è uno scarto del 22 per cento in meno rispetto ai non indagati». Lo stesso ricercatore però avverte che «restano esclusi da questo studio tutti i casi di rientro in aziende pubbliche, segreterie di partito, associazioni politiche o imprese private».
Dunque, il tasso complessivo di rientro dei tangentisti in posizioni di potere è molto più alto. «La ricerca conferma che il politico inquisito paga un pedaggio anche in Italia, ci mancherebbe altro», osserva il professor Vannucci. «Ma sarebbe interessante fare un confronto con le economie più avanzate: ho la sensazione che in Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna o Svezia la percentuale di inquisiti che vengono rieletti in parlamento sia prossima allo zero. Inoltre la ricandidatura non è sempre la strategia principale: come dimostrano i casi di Frigerio o di Mario Chiesa, il primo arrestato di Mani Pulite tornato in carcere nel 2009, in Italia è normale riciclare sotto altra veste il capitale di contatti costruiti nella precedente carriera politica. È come avere un know-how di competenze illecite e cattiva reputazione. E se non ha cariche elettive, il faccendiere è meno esposto, dunque fa correre meno rischi a sé e ai complici».
Ma perché la società italiana non riesce a liberarsi di una corruzione sistematica neppure dopo vent’anni di arresti, processi e condanne? Grazia Mannozzi, docente di Diritto penale e autrice con il giudice Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, di vari saggi sull’effettivo livello della corruzione in Italia, risponde che «in Italia c’è un problema storico di debolezza del voto e di forza delle reti clientelari e corruttive. Ma, da penalista, vedo anche una questione di diritto: l’iscrizione tra gli indagati e la stessa condanna non bastano a veicolare il messaggio della criminosità della corruzione. Passa l’idea che il politico sia un po’ disonesto, ma non un vero criminale. Molti colpevoli evitano la condanna grazie alle scandalose regole italiane sulla prescrizione, che poi viene presentata come un’assoluzione. Anche nei casi di condanna, gran parte delle sentenze restano sotto il limite dei due anni, con la pena sospesa. E il nostro patteggiamento non presuppone alcuna ammissione di colpevolezza, anzi dopo soli cinque anni la fedina penale torna pulita. Negli Stati Uniti invece chi patteggia deve confessare, dichiararsi colpevole, risarcire tutti i danni e chiedere scusa ai cittadini. E nessuno si sogna di attaccare i magistrati, dichiarandosi vittima di complotti o dicendo che così fan tutti.È l’impunità quasi totale che permette di non rovinarsi l’immagine e ripresentarsi in politica o nelle aziende. La giustizia italiana non riesce a mostrare al Paese il volto dei colpevoli né i danni della corruzione. Quindi il corrotto conserva un serbatoio di voti di cui il capo-partito fatica a rinunciare».
COMUNI NUOVI, REGIONI NO
A livello locale, la ricerca si è concentrata sui politici indagati dalle Procure di Milano e di Napoli, che nel 1992-1994 hanno avuto un ruolo trainante nella lotta alla corruzione. Lo studio analizza, in particolare, quei casi di rientro che rappresentano una specie di prova di forza degli inquisiti: il consigliere comunale indagato che riesce a farsi rieleggere nella stessa assemblea cittadina; il politico regionale che si ricandida e vince in Lombardia o in Campania. Col senno di poi, il dato più interessante è che alle elezioni locali dell’autunno 1993, cioè in piena Tangentopoli, non è stato ricandidato nessuno dei consiglieri comunali inquisiti, né a Milano né a Napoli. Nelle tre elezioni successive, invece, il quadro cambia: a Milano si ricandida il 10 per cento degli indagati, contro il 17 per cento di Napoli. Al Sud è più alta anche la quota di rieletti: 10 su cento a Napoli, 7 a Milano.
Agli indagati nelle regioni va ancora meglio: a partire dal 1995 in Lombardia rispunta in lista il 23 per cento degli inquisiti e il 15 per cento vince. In Campania il tasso di riciclaggio supera il livello-record del Parlamento nazionale: la percentuale di ricandidati sale a quota 36 e la metà esatta conquista la rielezione.
Se i processi in Italia fossero un’antologia di errori giudiziari, come sostengono certi politici, si potrebbero liquidare questi dati sostenendo che riguardano i meri indagati, cioè presunti innocenti, ma l’obiettivo dello studio americano era proprio quello di misurare l’effetto del semplice coinvolgimento in un’inchiesta per corruzione, anche senza condanna. Ma i condannati ai processi di Tangentopoli, celebrati a Milano dal 1992 al 2002, sono stati ben 1.281. Tra tutti gli indagati, più del 25 per cento se l’è cavata con la prescrizione. Solo il 15 per cento ha ottenuto una vera assoluzione nei tre gradi di giudizio.
«In Italia il livello di corruzione era e resta insostenibile», conclude Vannucci. «Il sistema di Tangentopoli era centralizzato e gerarchizzato: tendenzialmente tutte le imprese pagavano per tutti gli appalti; e a riscuotere era un gruppo selezionato di tesorieri e fiduciari dei partiti. Oggi la corruzione è diventata policentrica: ci sono diversi gruppi organizzati di faccendieri e politici, affiancati da consorzi di imprenditori e cricche di alti funzionari. Sembrano mancare quelle figure centrali che fino a vent’anni fa erano in grado di garantire il rispetto dei patti corruttivi in tutta Italia. Con un’eccezione tragica: nei territori dominati dalle organizzazioni mafiose, anche la corruzione è ancora centralizzata. E fare da garanti tra imprese e politica sono i boss mafiosi».