Valentina Giannella e Lucia E. Maruzzelli, Sette 26/6/2014, 26 giugno 2014
STESSO PADRE MA VITE DIVERSE. «BARACK HA CERCATO DI REALIZZARE I SOGNI DI PAPÀ. IO HO CERCATO DI CORREGGERNE GLI ERRORI»
«Barack sta ancora lottando con i propri demoni. Non penso che abbia davvero fatto pace con nostro padre. Ci vorrà tempo prima di ritrovarci come fratelli». La voce di Mark Obama Ndesandjo è profonda, il linguaggio forbito, le parole accompagnate dal movimento di quelle mani grandi, “mani di famiglia”. Ad ascoltarlo, seduto sulla poltrona davanti al caminetto della casa al Peak di Hong Kong (qui è arrivato da Shenzhen, la città dove vive da 12 anni oltre il confine con la Grande Cina) per questa intervista esclusiva, sembra di avere davanti suo fratello. Il Presidente degli Stati Uniti d’America.
Mark ha scritto due libri in sei anni, Nairobi to Shenzhen e An Obama’s Journey (in uscita in America il prossimo settembre e di cui Sette pubblica oggi, e per due settimane, in anteprima mondiale alcuni estratti) in cui racconta un’infanzia di violenza e abusi da parte di Obama Senior, il padre che condivide con il Presidente. Questa sua memoria stampata ha raffreddato i già discontinui rapporti con Barack. Un fratello di cui Mark va fiero e la cui ascesa politica lo ha convinto a riesumare un cognome che aveva cancellato sin dalla prima giovinezza: Obama, appunto.
«Come me, Barack è di razza mista ed è stato abbandonato dal padre. Come me ha frequentato le università americane più prestigiose. Come me, viene da una famiglia che è caduta a pezzi. Diversamente da me, lui ha sempre rincorso le sue radici africane e ha sempre cercato di riconciliarsi con il proprio passato».
Mark, lei ha ripescato il cognome Obama solo sei anni fa. Perché?
«Ho sepolto il cognome di mio padre per tutta una vita, non volevo più avere niente a che fare con la sua memoria che mi riportava solo a immagini dolorose di quando avevo sette anni e cercavo di proteggere mia madre dalla violenza di un uomo che rientrava la sera ubriaco. Ancora oggi non posso sopportare l’odore del whiskey che lui beveva e ricordo le gambe di mia madre, che correvo ad abbracciare dopo l’ennesima lite. (Il culmine fu quando un vicino, richiamato dalle urla di Ruth Baker e dei figli, riuscì a fermare Obama Sr. e salvò la moglie, a cui aveva puntato un coltello alla gola nel salotto di casa, ndr). Poi, Barack ha cominciato la sua corsa per la presidenza degli Stati Uniti, nel 2007, e, discorso dopo discorso, con il progredire della campagna elettorale ho sentito che l’odio verso questo nome si trasformava lentamente in orgoglio per la forza con cui mio fratello stava cercando di cambiare il mondo. Vedendo milioni di persone ascoltare le sue parole di speranza, l’energia che cresceva intorno al suo sogno, mi sono sentito per la prima volta fiero di essere un Obama. All’inizio, nonostante il guscio che proteggeva il mio cuore si stesse lentamente sciogliendo, volevo mantenere l’anonimato per non venire travolto dal circo mediatico che stava montando intorno alla nostra famiglia. Poi, un giorno, un amico mi disse: “Mark, smettila di negarlo: sei un Obama anche tu”».
Lei ha dichiarato di avere scritto questo libro, An Obama’s Journey - My odissey of self discovery, per redimersi. Cosa intende per redenzione?
«La prima ragione che mi ha spinto a mettere nero su bianco la mia storia era condividere l’odissea straordinaria che ho vissuto in oltre 40 anni a cavallo di tre culture diverse: africana, americana e cinese. La seconda era raccontare la famiglia Obama, la cui verità non è conosciuta come dovrebbe, anche attraverso il rapporto con mio fratello Barack. Ma soprattutto volevo essere io, in prima persona, a parlare di me stesso. Senza lasciare che fossero altri a farlo».
Si riferisce alla versione di Barack Obama sulla memoria di vostro padre, nel libro autobiografico del Presidente Dreams from my father (uscito nel 1995)?
«I figli spesso prendono direzioni opposte: o cercano di realizzare i sogni del padre o cercano di correggerne gli errori. Mio fratello Barack ha cercato di realizzare i sogni di nostro padre ed è arrivato in cima. Io, soprattutto attraverso quest’ultimo libro, ho cercato di correggerne gli errori raccontando al mondo che da un passato di violenza e di abbandono si può uscire. Con fatica, con dolore, ma si può».
Perché lei e Barack avete una percezione così diversa di vostro padre?
«Abbiamo avuto due esperienze di vita totalmente differenti con lui. Obama Sr. partì per le Hawaii nel 1959 dove incontrò Ann Dunham, la madre di Barack. Si sposarono a Maui e lui nacque poco dopo, il 4 agosto 1961. Due anni dopo divorziarono, mio padre andò ad Harvard dove incontrò mia madre Ruth Baker. Si innamorarono, mia madre lo raggiunse in Kenya dove nel frattempo si era trasferito. Io e Barack abbiamo solo quattro anni di differenza, ma ci accomunano due madri bianche americane, un padre keniota e una formazione in scuole prestigiose degli Stati Uniti. La grande differenza, però, sta nel fatto che io ho vissuto nella stessa casa con mio padre per sette anni. Barack, dopo che il padre lo ha lasciato all’età di due anni, lo ha rivisto solo una volta quando già ne aveva dieci, nel 1971 (lo portò a un concerto jazz, suonava Dave Brubeck). Credo che la madre di Barack gli abbia sempre parlato bene del padre, perché voleva compensare la sua assenza nella vita del figlio. Voleva che avesse un buon ricordo».
Vostro padre aveva un dottorato ad Harvard. Era colto, determinato e con un grande carisma, almeno così lo ritrae Barack. Lei come lo descriverebbe in un aggettivo?
«A un bambino non interessano le lauree prestigiose. Vuole affetto, sicurezza, sentirsi protetto dal proprio padre. Il mio era certamente un uomo brillante che compì un’impresa straordinaria. Cresciuto in un villaggio in Kenya dove badava alle capre, è riuscito ad arrivare ad Harvard, una delle università più esclusive al mondo. Nonostante questo, se devo definirlo in un aggettivo direi torturato. Torturato nell’anima».
Perché?
«Quando aveva sei anni, fu abbandonato dalla madre che fuggì da una situazione di violenza domestica non più tollerabile. Barack Obama Sr. e sua sorella scapparono di casa, una notte, per cercarla, e si persero nella foresta, dove vennero ritrovati solo giorni dopo, stremati, a quasi 100 chilometri di distanza. (Mark si ferma, si commuove, ndr). Posso solo immaginare quello che avrà provato chiamando il nome di sua madre per giorni senza avere risposta, nel buio. Io e mio padre abbiamo in comune un dolore, una ferita che ha formato una corazza impenetrabile dentro di noi. Io sono riuscito a distruggerla, dopo tanti anni, ma lui non ha mai avuto la possibilità di farlo». (Barack Obama Sr. è morto in un incidente stradale a Nairobi, Kenya, all’età di 46 anni. Era il 24 novembre 1982, ndr).
Scrivere la sua storia ha contribuito a curare le ferite?
«Ho scritto questo memoriale per rompere la cultura dell’omertà che copre le vicende di abusi domestici in tutto il mondo. So che Barack e la mia famiglia si sono allontanati da me dopo questa decisione. Ma alla fine, quello che conta è ristabilire la verità. E dare la speranza che ci sia comunque un futuro possibile».
Quando ha incontrato Barack per la prima volta?
«Era il 1988, vivevo in Kenya. Nonostante fisicamente sembrassimo quasi gemelli, da subito abbiamo percepito una grande distanza. La ricostruzione che Barack ha fatto del nostro primo incontro nel suo libro non è del tutto veritiera. Lui sostiene che lo abbiamo mandato a prendere con un’auto, che era atteso da mia madre, quando in realtà si è presentato a casa nostra senza preavviso. Io ero in camera mia, leggevo, mia madre è entrata e, con la sguardo stupito, mi ha detto: “Mark, in soggiorno c’è tuo fratello dall’America”. È stato un incontro breve, seguito da un pomeriggio pochi giorni dopo in cui lui mi chiese con insistenza informazioni su mio padre quando io invece volevo assolutamente dimenticarlo. Più tardi, ho capito che stava già raccogliendo materiale per il suo libro».
Cosa la colpì durante quel primo incontro?
«Barack pensava che io fossi troppo bianco e io pensavo che lui fosse troppo nero».
In che senso?
«Lui era stato cresciuto dai nonni materni in un ambiente bianco e stava cercando di ritrovare le sue radici africane. Si vedeva da come portava i capelli, da come camminava, da come vestiva. Io ero cresciuto in Africa e in quel momento, in cui mancavano poche settimane alla mia partenza per l’università di Stanford, amavo tutto quello che rappresentava la cultura occidentale, compresi Bach e Beethoven».
Quante volte vi siete incontrati, successivamente?
«Diverse volte. Barack non è sempre stato caldo e accogliente, ma ci sono stati momenti in cui ci siamo abbracciati e ritrovati come due veri fratelli. Ad Austin nel 2008, per esempio, durante la sua corsa alla Casa Bianca».
Come andò?
«Ero in Cina ormai da sei anni. Facevo la mia vita. Ma continuavo ad avere queste immagini nella mia mente che mi riportavano a Barack. Finché una notte ho fatto un sogno, un incubo terribile. Ho sognato di cadere da un aeroplano in una vasta pianura. Vicino a me, dopo questo volo mortale, trovavo Barack e cominciavamo a parlare. Camminavamo lentamente, da soli, eppure con la sensazione di essere circondati da migliaia di persone. Improvvisamente, un oggetto scuro mi passò vicino sibilando e finì per colpire mio fratello. Avevano sparato al Presidente. Mi sono svegliato, tremando, ho raccontato tutto a mia moglie Liu. Lei mi ha guardato e ha detto: “Si tratta di tuo fratello, devi andare da lui”. Avevo messo da parte un po’ di soldi per comprare un nuovo pianoforte, li ho usati pochi giorni dopo per volare in Texas. Lui non mi aspettava, è stata una sorpresa. È sceso dal palco dopo il dibattito con Hillary Clinton e mi è venuto incontro stupito ma caloroso. Abbiamo scherzato sui nostri capelli, che prima erano più lunghi, in stile afro. Abbiamo riso. Gli ho regalato una mia opera di calligrafia con un’antica frase cinese che significa: “Così vicini, così lontani. Così lontani, così vicini”. In quel momento ho sentito che molta della tensione che si era accumulata durante tanti anni si stava dissolvendo».
Subito dopo rientrò in Cina e Barack vinse le elezioni. Cosa provò in quel momento?
«Orgoglio. Un grandissimo orgoglio (allarga le mani in un abbraccio virtuale, ndr). Avevamo acquistato una promozione speciale della Cnn solo per la diretta tv di quei tre giorni. Molti amici volevano organizzare una serata tutti insieme, in attesa dei risultati, ma io e mia moglie abbiamo preferito stare a casa, noi due soli, con una pizza e una bottiglia di vino italiano. Quando è stato eletto non ho potuto trattenere le lacrime, soprattutto quando ha ringraziato i suoi fratelli in tutto il mondo (Mark, Malik, George e Auma. David è deceduto nel 1987 in un incidente motociclistico in Kenya, ndr). Ho mandato un messaggio ai miei amici, qui in Cina: “La nuova America è arrivata”».
Pechino, 2009: nel suo libro lo descrive come un incontro, l’ultimo, più freddo e formale. Che cosa è cambiato nel frattempo?
«Proprio in quei giorni avevo pubblicato il mio primo romanzo, Nairobi to Shenzhen, in cui la finzione narrativa traeva comunque spunto da episodi drammatici della vita con nostro padre. La promozione del libro a Pechino coincideva con la sua visita ufficiale. Mentre scrivevo questo libro avevo anticipato a mia moglie: “Vedrai, la mia famiglia mi odierà”. Anche se lo stesso Barack, tempo prima, mi aveva scritto: “Mark, vai avanti con la tua vita. Non preoccuparti di me”, quel giorno capii che qualcosa si era rotto tra di noi. Lui era distante, non ha neanche preso in mano il mio libro. Non l’ha neanche toccato. Era troppo educato per dirmelo, ma odiava quello che avevo scritto perché aveva distrutto l’immagine ideale che lui aveva di nostro padre. Comunque, alla fine dell’incontro ha abbracciato forte mia moglie e si è raccomandato di salutare mia madre. Io e lui abbiamo il massimo rispetto per le nostre madri. È grazie alla loro forza che siamo cresciuti pur in un contesto difficile di razze miste e culture differenti. E lo sappiamo».
Come sono i rapporti oggi, dopo cinque anni e un nuovo libro di memorie in uscita a settembre, An Obama’s Journey?
«Barack sta ancora lottando con i propri demoni. Non penso che abbia davvero fatto pace con nostro padre. Ci vorrà tempo prima di ritrovarci come fratelli e perché la mia ricostruzione dei fatti venga accettata emotivamente. Dopo il nostro incontro a Pechino, ha rilasciato una dichiarazione alla Cnn in cui diceva che ci conosciamo poco, che ci siamo incontrati per la prima volta solo due anni fa. Non è vero. Oggi non siamo in contatto. E sento che ultimamente sta ignorando, per motivi politici, anche la famiglia che vive ancora in Kenya. Poco tempo fa gli ho mandato una lettera in cui gli chiedevo di fare avere sue notizie alla nonna Sarah, con cui non ha contatti da almeno tre o quattro anni. Ma non ha mai risposto. Da allora, il silenzio».
Nel libro in uscita lei scrive che è nato in Kenya, si è perso in America e ha ritrovato se stesso in Cina.
«Ho passato la prima parte della mia vita cercando di sfuggire alle radici africane. Volevo lasciare tutto alle spalle e ricominciare in America. In America, però, ho fatto molti errori: non sono stato leale con le donne, ho ceduto alla tentazione di barare alla fine dei miei esami universitari, ho sfidato la morte più volte. Poi c’è stato l’11 settembre, il mondo è cambiato e anch’io ho preso una decisione che avrebbe rivoluzionato la mia vita: sono partito per la Cina, 12 anni fa».
Perché proprio la Cina?
«Avevo 35 anni e ho perso il mio lavoro in una grande compagnia di telecomunicazioni. Mi sono fermato a riflettere: la vita è tutta qui? Lavorare, fare soldi. Non ero felice. Sono entrato in una libreria, il mio sguardo è caduto su una rivista che raccontava le storie degli americani che andavano a insegnare inglese in Cina. Ho chiamato l’autore dell’articolo e contattato la società che organizzava questi corsi. Era tempo che cercavo una scusa per tornare in Asia dopo il viaggio che avevo fatto anni prima, subito dopo il master, insieme ai miei compagni di corso. Mi ero innamorato della gente, del calore, dei colori dell’Asia. Ho venduto la casa, la macchina e sono partito. Arrivato a Shenzhen nel 2002, mi aspettavo uno scenario completamente diverso da quello immaginato, ovvero uomini in divisa verde con il cappellino dell’esercito di Mao, tutti in ordine e tutti controllati. Invece era un allegro caos. Un Wild East, il selvaggio Est».
La sua vita qui è davvero cambiata?
«In Cina sono entrato in contatto con un’umanità diversa. Ho conosciuto le immense sale degli orfanotrofi dove migliaia di bambini stanno rannicchiati in silenzio nelle loro culle. Senza piangere, sotto la luce fredda dei neon. Un giorno ho allungato una mano in una di queste culle e un bambino mi ha stretto il dito, non lo voleva più lasciare. Allora ho capito che era giunto il momento di usare la mia storia per aiutare quelli che, come me, hanno avuto un’infanzia difficile».
Mark Obama non è solo scrittore. Lei è anche pianista e ha prodotto diversi lavori.
«La musica ti può tirare fuori dai posti più bui. Le donne che mi hanno cresciuto mi hanno anche salvato, insegnandomi a suonare il pianoforte. Sono state mia madre Ruth e mia nonna Ida. L’anno scorso ho creato una Fondazione a Hong Kong (la Mark Obama Ndesandjo Foundation Limited, a cui andranno parte dei proventi dalla vendita del libro An Obama’s Journey, www.markobamandesandjo.com, ndr) che si occupa di portare la musica e l’arte nelle scuole e nei luoghi in cui vivono i bambini meno fortunati, qui in Cina e nel mondo. Il programma prevede la raccolta di fondi per portare un pianoforte e un’insegnante di arte nelle scuole più disagiate. Ma anche promuovere scambi culturali tra Cina e Kenya, di artisti e giovani talenti. Insegniamo il rispetto per le culture diverse, per le persone, soprattutto per i bambini. La mia vita è stata a cavallo di queste culture, e non solo».
Lei ha figli?
«Ho i miei libri e i piccoli ai quali insegno pianoforte all’orfanotrofio».
Mr. Obama, se fosse per un giorno l’uomo più potente del mondo, cosa farebbe?
«Intonerei una canzone, da cantare tutti insieme. Io starei al pianoforte».