Mark Obama Ndesandjo, Sette 26/6/2014, 26 giugno 2014
«IL CAMBIAMENTO GLI AVEVA STRAVOLTO LA VITA
L’AVEVA RESO SIMILE A UN’ENORME SFERA CHE, LIBERA DI ROTOLARE, AVREBBE TRAVOLTO CHIUNQUE SI FOSSE TROVATO SULLA SUA STRADA» [Il primo capitolo del libro sulla famiglia Obama] –
A volte, nell’oscurità della memoria o lungo i confini indistinti del tempo, i volti dei familiari si fondono con il mio ed è facile confondersi, nel tentativo di capire dove l’uno lascia il posto all’altro.
Da mia madre ho ereditato il naso importante. Mio fratello, il Presidente Barack Obama, ha le orecchie a sventola. Mio padre aveva mani grandi. In famiglia tendiamo ad avere alcune parti del corpo appariscenti: non sgradevoli, ma di dimensioni tali da non passare inosservate.
Quando Barack venne a salutarci, io e mia moglie eravamo appena arrivati all’hotel Regis di Pechino. Superati i controlli di sicurezza, ci trovavamo da qualche parte in uno dei piani superiori, in una piccola sala ricevimento decorata con carta da parati con motivi cachemire rosa e arredata con mobili francesi in stile falso antico tappezzati di verde e scarlatto. Su un caminetto in marmo bianco, un quadro acrilico modernista aveva l’aspetto di una foto sfocata. Lussuosi divani e sedie con lo schienale rigido erano disposti a caso, rendendo la stanza una via di mezzo tra un ufficio e un salotto. La natura ambigua di questo luogo d’incontro rigorosamente protetto era accentuata dalla fioca illuminazione emessa dalle lampade da tavolo e dai movimenti discreti del personale del consolato, figure che entravano e uscivano come spettri silenziosi.
Sentii un rumore dietro di me e, voltandomi, vidi qualcuno ritto sulla porta, una sagoma in ombra che si stagliava contro la luce intensa del corridoio. Riconobbi il profilo di quelle grandi orecchie da topo sporgenti. Avanzò verso la luce e vidi il suo volto calmo e serio. Le rughe apparivano più profonde rispetto all’ultima volta che ci eravamo visti, durante la settimana del suo insediamento. Pur superandomi in altezza solo di pochi centimetri, la sua figura mi sovrastava, come nel 1988 in occasione del nostro primo incontro. Mi sentii improvvisamente sopraffatto nel trovarmi di fronte a mio fratello Barack Obama, il Presidente degli Stati Uniti.
Durante la settimana dell’insediamento mi aveva fatto una promessa: «Ti rivedrò con tua moglie in Cina».
Fino al nostro incontro a Pechino non avevo mai considerato Barack come il Presidente, ma come mio fratello: un po’ più alto e più vecchio di me, certo, ma comunque solo un fratello. Entrando mi vide e, istintivamente, mi tese la mano. Per un istante mi sentii offeso, poi lo abbracciai. Silenziosamente, ricambiò il gesto. Percepii un lieve sentore di fumo di sigaretta e capii che, nonostante i suoi sforzi e l’impegno di Michelle, oggi aveva ceduto al vecchio vizio. In quel momento avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa e gliela avrei concessa con gioia: finalmente avevamo ritrovato quell’intimità che avremmo dovuto condividere decine di anni fa. Il nostro incontro nell’estate del 1988 in Kenya si era svolto in un’atmosfera fredda e accusatoria, caratterizzata dalle sue argomentazioni legali e da un’inchiesta quasi antropologica sulla nostra storia comune e su nostro padre, Barack Obama Senior.
«Mi chiedo cosa starà pensando Barack in questo momento», era stato il commento di un amico dopo la pubblicazione del mio romanzo Nairobi to Shenzhen.
Mi ero già inimicato mia sorella Auma, fuori di sé perché avevo reso pubblica la disfunzionalità di nostro padre, da sempre un idolo ai suoi occhi. Probabilmente, durante il suo incontro con Barack Junior non si era soffermata sugli episodi di violenza che si erano verificati all’interno della nostra famiglia.
Nella migliore delle ipotesi, riflettei, Barack avrebbe ignorato il clamore. Nella peggiore, mi avrebbe voltato le spalle.
Cosa pensava veramente mio fratello?
«Come va, Mark?», furono le sue prime parole. Studiai il suo volto con maggiore attenzione. La pelle mostrava una sfumatura giallognola, coriacea, come se il fuoco interiore si fosse consumato. Gli occhi apparivano stanchi e rassegnati, come lo sguardo di chi vede le responsabilità per quelle che realmente sono: ineluttabili, oggetto di attenzione e impegno costanti, sempre presenti.
«Caspita, bell’abito», risposi, non sapendo cos’altro replicare. Indossava un elegante completo blu navy con sfumature argento effetto crespo. Ogni dettaglio risaltava nitido: ogni cucitura, ogni piega. Sul lato sinistro della testa notai una zona rasata, dove si era accidentalmente tagliato con un rasoio elettrico. Una spilla con bandiera era perfettamente allineata al nodo nella splendida cravatta blu a pois bianchi.
Le sue parole risuonavano ancora nella mia mente: «Ti rivedrò con tua moglie in Cina, ma non a Shenzhen. Non mi lasceranno cenare insieme a voi».
Mio fratello aveva mantenuto la promessa.
Ma la sua mente era altrove o forse era troppo concentrata sul momento, come colui che beve avidamente una tazza di tè e continua a chiederne, ma a ogni tazza il piacere diminuisce. Forse ero la sua centesima tazza di tè, dopo un anno trascorso a sorbirne più di quanto si sarebbe mai aspettato.
Durante il nostro incontro Barack sorrise solo due volte.
La prima fu quando vide una fotografia di mia madre. In occasione della recente pubblicazione del mio romanzo avevo fatto realizzare finte copie del libro, che ne riproponevano la copertina, ma contenevano pagine vuote.
«Perché non utilizziamo uno di questi testi per preparare una raccolta di foto della tua famiglia da regalare a Barack?», aveva suggerito mia moglie prima di partire per Pechino.
L’idea mi piacque. Con entusiasmo, scegliemmo foto mie, di mio padre, del mio compianto fratello David e di mia madre, che probabilmente Barack non aveva mai visto, e le incollammo su quelle pagine. Accanto a ciascuna di esse aggiunsi a mano una breve didascalia e una riflessione.
«Come sta tua madre?», chiese. «Bene». «Salutala da parte mia», commentò con un lieve sorriso, sollevando appena le labbra e battendo quasi impercettibilmente le ciglia, come se si sentisse troppo imbarazzato per aggiungere altro. Questo è il vero sorriso di Barack, il riflesso di una personalità che è libero di esprimere quando non deve sottostare alla teatralità della politica, sintomo di un carattere piuttosto rigido e severo. Quel sorriso era una conferma dell’influenza potente e indimenticabile che le nostre rispettive madri e nonne avevano esercitato sulla nostra esistenza.
Il secondo sorriso giunse quando vide un’immagine che ritraeva nostro padre seduto a una scrivania intento a studiare.
In questa foto, scattata durante gli anni trascorsi presso l’Università delle Hawaii, Barack Obama Senior appare serio e completamente assorbito dalla sua attività. Nella parte superiore è impercettibilmente visibile una debole traccia di colore, forse il rossetto di una vecchia fiamma. Questa immagine mostrava il lato di mio padre che avevo imparato ad ammirare negli ultimi anni: vi leggevo tutta l’operosità e la concentrazione che gli avevano garantito risultati superiori a molti altri studenti.
Mio fratello guardò la foto e sorrise di nuovo, ma questa volta fu solo un mezzo sorriso, pervaso dal rifiuto implicito di approfondire ulteriormente l’argomento con me. Avevo dimenticato che in privato, lontano dall’oratoria pubblica, mio fratello poteva essere un Heathcliff di colore, la sua presenza un cupo vento di monosillabi ululante attraverso la brughiera, fredda e isolata. Non parlò, ma in quel momento capii che non poteva perdonarmi.
In occasione di uno dei nostri precedenti incontri, ad Austin, durante la campagna elettorale, gli avevo consegnato uno stralcio di calligrafia cinese scelto con grande attenzione: «Così vicino, eppure così lontano. Così lontano, eppure così vicino».
In quella stanza a Pechino io e mio fratello eravamo vicinissimi, eppure tra noi c’era una distanza incolmabile. Avevo sperato di riuscire a parlare con lui di Obama Senior, magari per capire cosa avesse portato due figli che condividevano lo stesso padre a scegliere percorsi così diversi.
Ma in tutta onestà, come potevo aspettarmi che qualche vecchia fotografia o perfino il romanzo che avevo scritto potessero indurre mio fratello ad aprirsi con me per la prima volta? Come potevano le convinzioni di decenni e la radicata ammirazione di un adulto per il padre essere in qualche modo influenzate dalle opinioni di un fratello che conosceva appena?
Ero stato un ingenuo.
Il mio amico si era posto un’ottima domanda, destinata però a rimanere senza risposta.
Barack non avrebbe mai espresso la sua opinione sul mio romanzo e il suo contenuto. Almeno, non di sua spontanea volontà. Non ebbi il coraggio di insistere, perché ero abbastanza vicino da intuire il suo pensiero e in quel momento mio fratello mi spaventava. Il cambiamento che gli aveva stravolto la vita l’aveva reso simile a un’enorme sfera di acciaio che, libera di rotolare, avrebbe distrutto qualsiasi cosa o chiunque si fosse trovato sulla sua strada.
«Perché a caso si volse a guardare venne innalzata sugli altri». (La frase originale “Sometimes by chance / A look or a glance / May one’s fortune advance” è tratta dal romanzo The Story of the Stone: The Golden Days di Cao Xueqin. La traduzione italiana è quella ufficiale, presente nella versione italiana del testo Il sogno della camera rossa. Ndt)
In quel preciso istante capii che mi sarebbe stato difficile anche solo piacergli e tanto meno sarei riuscito a conquistare il suo amore fraterno.
Anni prima, mentre affrontavo la stesura di un passaggio particolarmente difficile riguardante mio padre, ero scoppiato in lacrime, lasciando mia moglie sconvolta alla vista di un adulto sopraffatto dalle emozioni.
«La mia famiglia mi odierà a causa di questo libro, tesoro», spiegai.
Mi abbracciò, assicurandomi che non sarebbe successo. Ma senza dubbio sentiva che avevo ragione.
Più tardi, nel corso di quella giornata a Pechino, un giornalista chiese a mio fratello un parere sul nostro incontro: «Non lo conosco molto bene. L’ho incontrato per la prima volta solo due anni fa», fu la risposta.
Sentire parlare di me in terza persona in quel modo mi sembrò surreale. Forse avrei dovuto scusare tale atteggiamento imputandolo alla schiettezza con cui l’intervistatore aveva posto la domanda, ma nessuna logica o scusa poté lenire il dolore che provai. In fondo, l’avevo già incontrato in diverse occasioni in passato.
In quel momento era il Presidente degli Stati Uniti, non mio fratello. I riflettori dei media, che ogni giorno mettono in luce le gesta dei politici, erano accesi su Barack nel suo ruolo istituzionale. Forse avevo pensato che il nostro legame familiare avrebbe potuto in qualche modo evitare quella risposta pronta e cautamente blanda. Invece, erano state pronunciate parole sprezzanti.
Trascorsi il resto del nostro incontro in una sorta di stordimento. Prima che me ne rendessi conto, Barack se n’era andato per un appuntamento con il Presidente della Cina e io e mia moglie eravamo sull’aereo che ci riportava a Shenzhen.
Rientrato a casa, riflettei sull’accaduto e decisi di scrivergli una lettera.
Caro fratello, è stato bellissimo incontrarti a Pechino! Sono consapevole delle grandi sfide che ogni giorno richiedono la tua attenzione, ma spero che troverai il tempo di leggere questa lettera.
Molti anni fa hai tentato di avviare con me una discussione sulla vita in generale e su nostro padre in particolare. Allora rifiutai il confronto. Oltre un anno fa nostra sorella Auma mi ricordò una massima: «C’è un tempo per ogni cosa». Ultimamente ho pensato molto a queste due circostanze: quella conversazione interrotta e il fatto che alcune situazioni non avvengano nel momento opportuno. Per me, la tua elezione ne è stata un esempio, ma mi ha spinto a riflettere su ciò di cui avevamo parlato tanto tempo fa. Ho pensato alla mia casa ad Alego, una casa in cui tu sei stato poco, ma nella quale io ho abitato per anni. Tu eri alla ricerca del fantasma di nostro padre, io ne fuggivo. Ho provato in tutti i modi a dimenticare il passato, ma ho fallito miseramente. Non sono riuscito a capire me stesso e questo mi ha portato a commettere errori terribili…
Ho rifiutato il nostro nome a lungo, perché collegato a quei tristi ricordi. Tu mi hai fatto cambiare idea: mi hai reso molto orgoglioso, ispirandomi a tornare sui miei passi…
Barack, voglio riavvicinarmi a tutta la nostra famiglia e tu rappresenti un riferimento importante. Senza il tuo supporto potrò farcela, ma sarà difficile…
Avrei voluto dirti molte cose, Barack, ma avevamo così poco tempo a disposizione! Spero con tutto il cuore che il rapporto allacciato tempo fa possa continuare, nel tentativo di ricostruire un legame con la mia storia e i miei ricordi…
Con affetto, Mark Okoth
Non ha risposto. Non gli ho mai chiesto se ha letto la lettera. Eppure – nonostante l’atmosfera agrodolce del nostro incontro – conservo ancora il ricordo dell’abbraccio di mio fratello, del suo primo sorriso, della sensazione di stare in famiglia, in un’atmosfera accogliente e protetto dal pungente inverno di Pechino.
Tuttavia, per entrambi tutto ha avuto inizio in Africa, dove le nostre differenze e i nostri eccezionali percorsi hanno preso forma.
Traduzione Studio Annita Brindani
1 - continua