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 2014  giugno 22 Domenica calendario

L’ULTIMO SARTO DI BAGDAD

«L’ultimo matrimonio? Un anno fa. Fino a 10 anni fa i nostri sposalizi duravano 2-3 ore in chiesa, poi una serata, quasi una notte intera di festa, di gioia pura. Adesso pochi minuti in chiesa, come in una catacomba, poi via. I fiori vengono fatti arrivare giorni prima, fiori di plastica, per non far capire che stiamo per celebrare un matrimonio cristiano. La mia famiglia arrivò a Bagdad più di 100 anni fa, da Einqawa, nel Kurdistan. Allora avevano i lasciapassare ottomani, e come tanti cristiani della regione di Erbil preferirono fuggire verso il sud, verso Bagdad. Oggi? Non sappiamo. Nulla. Ormai siamo quasi clandestini. Viviamo nella paura, nel dubbio, nell’incertezza. Stiamo perdendo la capacità di capire, di ragionare, di prevedere il futuro, di credere in noi, di essere cristiani e di essere uomini».
La piccola bottega di Majd Yousif, il sarto di Bagdad, è un delizioso laboratorio d’altri tempi. I vestiti, le camicie che quest’uomo di 54 anni confeziona assieme ai suoi due anziani lavoranti sono appesi in ordine in una vetrina. Sugli scaffali a destra le pezze di stoffa per gli abiti. A sinistra il cotone per le camicie. Le Chiese cristiane orientali in Iraq seguono tanti riti (greco-ortodosso, latino, siriaco, anche protestante), ma l’80 per cento dei 300 mila fedeli sono cattolici caldei, una Chiesa autonoma ma legata a Roma e al suo Papa. «Andare in chiesa, in una chiesa qualsiasi, ormai per me è un dolore. È il momento in cui invece di pregare, la mia mente concentra tutta l’incertezza, il dubbio, il vuoto della nostra esistenza. Di quella che costruirò per i miei tre figli, per i nipoti, per i nostri giovani. Sono in chiesa, ma la mia testa è fuori, conquistata dallo stress. Non è paura. Ormai è oltre la paura, è peggio: è il vuoto».
Dopo l’occupazione americana del 2003 i problemi non iniziarono subito. Tutti i cristiani rimpiangono senza nessuna esitazione o imbarazzo Saddam Hussein e maledicono i neo-con che convinsero Bush all’invasione. Fu la campagna di attentati di Al Qaeda del 2005-2007 ad aprire massicciamente la strada al martirio cristiano. Poi gli attacchi alle chiese, sistematici, qualche mese di interruzione e un nuovo colpo. Come quello alla chiesa della Nostra Signora del Perpetuo Soccorso di Bagdad: il 31 ottobre 2010 la strage di un commando di al Qaeda, due sacerdoti uccisi a bruciapelo sull’altare, altri 50 fedeli sterminati. «Ma quelli erano gli episodi del grande terrorismo, che colpiva tutti gli iracheni, soprattutto gli sciiti e i sunniti che si facevano guerra fra di loro. Noi siamo stati bersagliati singolarmente, vittime di chiunque, innanzitutto di minacce. A mio fratello spedirono 7 lettere minatorie, poco alla volta stringevano il cerchio su di noi. Dopo la campagna dei qaedisti da Al Dora, un quartiere in cui la nostra presenza era notevole, sono fuggiti quasi tutti. Parte chi può, io non posso».
Si avvicina Ebram Oshaia, uno dei due assistenti, un arabo greco-ortodosso di 75 anni, piccolo e resistente. Offre tè e caffè. «Eravamo 60 anni fa attorno alla base della Raf inglese di Habaniya, nella provincia di Anbar. Iniziò mio cugino facendo il sarto per gli inglesi. Poi qui a Bagdad, anni di lavoro, di rispetto: non sapevamo se eravamo cristiani, sunniti, sciiti. Oggi? Saddam? Era meglio, meglio! Non ho nessuna paura a dirlo».
Majd, il sarto di Bagdad, alza il volume del televisore e si blocca. Trasmettono le immagini della grande parata militare che gli sciiti del leader religioso Moqtada al Sadr hanno inscenato in mattinata a Sadr City. Rassicuranti per gli sciiti, paurose per i sunniti, agghiaccianti per i cristiani. Moqtada ha fatto sfilare centinaia di soldati, con armi, missili, autoblindo che quasi neppure l’esercito del governo dello sciita Al Maliki riesce a sfoggiare. «È una dimostrazione di forza pericolosa», dice il sarto, «è un segnale di paura e terrore lanciato a tutto il paese, il segnale che potrebbe arrivare una guerra che non risparmierà nessuno». Una pausa, entrano due nipotini, 4 o 5 anni, sono scesi dall’appartamento di sopra, dove vive un nipote di Majd. Lui riprende: «Sono un sarto, sarà difficile ricostruire la trama, il tessuto della società irachena, la possibilità di vivere insieme».
Squilla il telefono, avevamo cercato monsignor Saad Syroub, il vescovo ausiliare caldeo di Bagdad. In italiano perfetto spiega lucidamente che «se le parti interne non riusciranno a trovare un accordo, dobbiamo aspettarci il peggio. Noi cristiani saremo colpiti». Anche monsignor Syroub è d’accordo col suo fratello sarto: «Non c’è dubbio, tutto questo è conseguenza diretta del percorso iniziato con la guerra del 2003, si è spezzato un equilibrio delicato, costruito con una violenza spietata ma mirata, mentre adesso la violenza è generalizzata, e fuori controllo. I cristiani rimpiangono Saddam? Io non dico nulla, ma i nostri fedeli vivevano allora, e oggi non vivono, domandano aiuto per partire, ci chiedono i certificati di battesimo per mantenere un’identità ovunque vadano a finire nel mondo».
Il sarto di Bagdad ci saluta. Un’ultima richiesta: mi prende le misure per fare una camicia? L’uomo si ferma, quasi vacilla. Strano. «Lei è il primo europeo che mi chiede una camicia dal 2003. Prima venivano in tanti, dalle ambasciate, dalla sede delle Nazioni Unite, i vostri manager di passaggio. Da allora questa è la prima camicia che cucirò per uno di voi. La prenda bianca, ripassi lunedì, sarà pronta».