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 2014  giugno 26 Giovedì calendario

NAZIONALISTA E CONFUSO, A TEMPO PERSO ANCHE CT

Aggiungete una semplice, banale “i” a prandellismo e avrete pirandellismo. Uno, dieci, cento, mille Cesare. Più di un lustro fa, nel 2008, Cesare Prandelli era un allenatore di Serie A, a Firenze, con fama di persona perbene segnata per sempre da un dolore straziante, la morte a soli 45 anni della moglie Manuela, per cancro. L’altra sera, nella conferenza stampa postNatalizia, nel senso di Natal, il cittì italiano ha trasformato la disfatta del suo “progetto calcistico”, riassumibile nell’ossessione di Balotelli, in una surreale questione politica. Prandelli si è lamentato di un presunto cambio d’umore nei suoi confronti quando gli è stato rinnovato il contratto: “Improvvisamente siamo diventati come un partito politico e io non ho mai rubato i soldi, pago le tasse”.
In realtà è a Prandelli che è piaciuto da morire percepirsi come “partito politico”. Alla vigilia del disastro con l’Uruguay è sembrato un leader nazionalista, più di Buffon che canta l’inno a occhi chiusi: “L’Uruguay ha un senso patriottico che noi non abbiamo, ma questa è la gara della vita, noi giochiamo per la Patria”. Ancora prima di questo discorso alla nazione, aveva inzuppato l’enfasi nel “trionfo” contro la perfida Albione in questi termini: “È stata una vittoria epica che ricorderemo sempre”. Per molti, adesso, il crollo di Natal è la metafora della prima sconfitta del renzismo. Non a caso lo stesso premier si è tenuto a distanza di sicurezza da ogni commento all’eliminazione dai Mondiali e pur di deviare l’attenzione ieri si è infilato a sorpresa nello streaming con i grillini. Prandelli certamente è un renziano e lo testimoniano varie interviste degli ultimi mesi, ma il cesarismo è oltre il renzismo, almeno per il momento, in quanto a confusione, idee per niente chiare e tante maschere da indossare. Il suo pirandellismo partitico trova giustificazione in “una politica libera dall’ideologia” ed è stato sublimato dallo stesso Prandelli, oggi, ricordiamolo, renziano osservante, così: “Ho votato a destra, a centro e a sinistra. Ho sempre guardato l’uomo. Da ragazzo mi piaceva Zaccagnini (democristiano, ndr). All’inizio ho creduto in Berlusconi. Poi ho guardato con interesse a Fini. In Veltroni ho trovato passione sportiva e spessore morale”.
È il tipico paraculismo dell’uomo medio italico che poi all’atto pratico non riesce mai a essere coerente. Prandelli è infatti il primo selezionatore della Nazionale che riesce a morire, calcisticamente parlando, senza un’idea che sia una. Bearzot, Sacchi, Trapattoni, Lippi ci hanno fatto dannare, o gioire, con i loro dogmi. Prandelli no. Nella partita della vita, quella per la Patria, ha schierato Balotelli e Immobile insieme. Era in assoluto la prima volta dopo due anni di esperimenti e partite di qualificazione. In questo Mondiale la sua specialità è stata improvvisare con un maldestro gestionismo. Un po’ come faceva Giulio Andreotti. Ha tentato di tirare a campare sperando nell’esplosione di Balotelli. Gli esempi di questo gestionismo a casaccio sono decine. Contro la Costa Rica sono entrati Cerci, Insigne e Cassano, ma non Immobile. Poi, martedì, ha sostituito Immobile con Cassano e Balotelli con Parolo. Da ricordare che il suo centravanti nelle qualificazioni è stato prevalentemente Osvaldo e la fascia destra è stata presidiata a lungo da Maggio. Entrambi, Osvaldo e Maggio, non convocati. Poi quando si è infortunato De Sciglio, non Cabrini, si è inventato Chiellini terzino. Dagli uomini al modulo è stato un crescendo mai visto. L’inguardabile 4-1-4-1 è diventato un disperato 3-5-2 e sempre zero tiri in porta. Il climax, appunto, Prandelli lo ha raggiunto con Balotelli. Si è affidato a un presunto campione che ha cambiato con questa motivazione: “Non sai mai quello che ha in testa”. E se non lo sa lui che lo conosce. Il prandellismo è stato un bluff politico-calcistico che ha tentato di mascherare i limiti del nostro modestissimo football. Supportato da Renzi e anche da Napolitano (altro punto di riferimento dell’ex cittì), Prandelli pretendeva di riunificare l’Italia e rifare gli italiani sulla base di una squadretta e di un codice a etica variabile. Ha pagato la sua volubilità e la sua incoerenza. Appena qualche settimana fa aveva detto: “Nessuno sarà inamovibile”. Siamo andati a picco con Balotelli inamovibile. Non poteva andare diversamente. L’Italia era molto scarsa e Prandelli avrebbe dovuto fare l’allenatore non lo statista.
Fabrizio d’Esposito