Gabriele Romagnoli, la Repubblica 26/6/2014, 26 giugno 2014
MORSI E FOLLIA, L’IRRESISTIBILE SINDROME DI LUIS SUAREZ
Nella stanza del cervello la luce si spegne. Un rumore infernale entra nelle orecchie. Porte e finestre blindate, da una fessura comincia a salire l’acqua.
Ventidue uomini sono intrappolati in un catino di tensione, febbricitanti di adrenalina. Ognuno reagisce come può, rivive traumi primari, ripete atti che gli sono familiari e sente liberatori. C’è chi urla sconcezze. Chi batte la testa contro il muro. Chi scalcia. Pavlov e Jung annotano. Luis Suarez morde.
Daranno il suo nome a questa sindrome. La studiano seriamente da almeno quattro anni, dalla seconda volta che ci cascò e parve, già allora, incredibile. I teorici del comportamento, come la maggior parte degli scienziati, azzeccano analisi e pronostici quanto i giornalisti sportivi. Nel caso del paziente Luis S. non hanno sbagliato niente. Nel 2013, dopo il morso bis, il professor Thomas Fawcett, cattedratico in una università inglese, profetizzò alla Bbc: «Non c’è terapia che tenga. Tempo massimo cinque anni, dategli una situazione di stress, che pizzichi la corda giusta e lo rifarà».
È il suo istinto, la sua coazione a ripetere. Più cerchi di distoglierlo e più gli verrà la tentazione di rifarlo.
Non c’è premeditazione, ma il suo opposto. Conosciamo tutti l’assunto di Lakoff: dì a qualcuno di non pensare all’elefante e immediatamente nella sua testa si materializzerà l’immagine di un pachiderma. Dì a Suarez di non mordere e, appena andrà in «apnea mentale» lo farà. Non vuole farlo, lo fa e basta. È il suo modo di esprimersi depurato dalla sovrastruttura etica, dalla maschera del super ego, dalla coscienza. Non può e non sa valutare le conseguenze. Non è pensiero, è azione pura, letteralmente sfrenata. Nella stupefacente mole di studi sul caso del paziente Luis S. i ricercatori inglesi hanno rimosso ogni altra possibile spiegazione. Non è odaxelagnia, una parola orrenda che identifica una forma di parafilia: l’eccitazione sessuale raggiunta a morsi. Non è feticismo. Non è un bisogno animale di sottolineare il possesso marchiando la preda. È la sindrome di Suarez: se fosse resistibile non cederebbe in mondovisione, sapendo che ci sono telecamere ovunque. Se fosse resistibile non l’avrebbe già rifatto. Quando in quella stanza si spegne la luce ci sono tennisti che spezzano la racchetta, attori che picchiano la moglie. E piloti che riescono a fare atterraggi d’emergenza, chirurghi che affrontano l’emorragia imprevista. C’è la regola scientifica e c’è l’eccezione umana.
Il paziente Luis S. è nato in una famiglia numerosa, composta da nove fratelli. Ha giocato a calcio nelle strade di Montevideo. Si è trasferito in Europa a diciotto anni. Niente di tutto questo, nessuna compassionevole sociologia, spiega il resto. Le sue contraddizioni sono emerse presto. Adora la moglie Sofia che conosce dall’adolescenza e gli ha dato due figli. È stato fotografato in night club olandesi e inglesi con donne diverse e meno dedite alla famiglia. È impegnato in attività benefiche. Ha rivolto insulti razzisti a Evra, calciatore francese di colore, e rincontrandolo quattro mesi dopo (quando la luce nella stanza doveva pur essersi riaccesa) ha evitato di dargli la mano. Con la stessa mano ai mondiali di quattro anni fa evitò un gol decisivo del Ghana. Gesto non sportivo ma ammissibile: si trattava di evitare un’eliminazione. Lo rivendicò con parole né sportive né ammissibili. Molti altri uomini mordono. Dopo cani e gatti gli umani sono la terza specie animale che causa ricoveri al pronto soccorso con segni dei denti sul corpo e pelle lacerata. Nella maggior parte dei casi chi aggredisce così ha esagerato con l’alcol.
Il paziente Luis S. colpisce da sobrio. Il difensore lo pressa, il risultato è in bilico, un attimo prima pensa: «Non devo farlo». Un attimo dopo nella stanza irrompe l’elefante. Tutti reagiamo come possiamo, lo si vede anche nei commenti del giorno dopo.
I tabloid buttano qualsiasi cosa in caciara e infatti fanno dello spirito più o meno riuscito. Miglior titolo, quello del New York Post: “Eataly”. Giuliano Ferrara s’innamora dei mascalzoni di varia taglia, è la sua compulsione. Proclama che all’Italia manca un «figlio di puttana così», ma forse basta cercare meglio. Il tristo popolo che naviga sui social lasciando una scia di cattiveria maleodorante offende su Facebook i figli di Suarez, per poi passare a «mordere» i parenti di Balotelli. Ognuno ha le sue reazioni, variano le conseguenze. Per Suarez saranno pesanti, la sua carriera potrebbe finire qui, di certo precipita. Era evitabile? Chi ha avuto a che fare con la rabbia e i terapeuti che provano a insegnarne il controllo ha imparato che esiste una sola via d’uscita. Devi renderti conto. Non del disvalore sociale: non te ne importerà mai abbastanza.
Devi capire due cose: stai rischiando e stai facendo del male. Rischi perché se invece di mordere Chiellini una sera lo fai con uno sconosciuto attaccabrighe in un pub di Liverpool, quello può essere più «figlio di puttana» di te, estrarre per l’ennesima volta un coltello e ammazzarti. Fai del male perché la tua reazione trascina con te nel precipizio altri che in te credevano: il tuo allenatore, i compagni, tua moglie, i tuoi figli se ne hai.
Se questo non basta a fermarti, da quella stanza buia, con le finestre blindate, l’acqua e l’elefante, tu meriti di non uscire mai più.
Gabriele Romagnoli