Federico Rampini, la Repubblica 26/6/2014, 26 giugno 2014
LA SVOLTA DI OBAMA “PRONTI DOPO 40 ANNI A ESPORTARE IL PETROLIO”
NEW YORK.
Si chiude una pagina di storia durata 40 anni, l’America diventa un esportatore di petrolio sui mercati mondiali. Barack Obama dice addio all’autarchia energetica, apre le frontiere all’export di greggio, sotto la pressione di due spinte convergenti: da una parte il boom di estrazione negli Stati Uniti; dall’altra l’esigenza politico- strategica di alleviare la dipendenza del resto del mondo dalla Russia e dal Medio Oriente.
Le crisi in Ucraina e in Iraq hanno accelerato questa decisione controversa. Era dagli anni Settanta che l’America si teneva per sé le proprie risorse di petrolio e gas naturale. Ora la riapertura delle frontiere è firmata dal Dipartimento del Commercio che ha concesso due licenze all’export: a Pioneer Natural Resources e a Enterprise Products Partners. Secondo il Wall Street Journal , che ha anticipato la notizia, questo è solo l’inizio e altre licenze seguiranno. Le prime spedizioni partiranno già dal mese di agosto, sia pure per quantitativi limitati. Il petrolio soggetto alla liberalizzazione è quello che viene chiamato “condensato” nel gergo del settore, ma in realtà è una categoria di greggio ultraleggero che in sede di raffinazione può essere trasformato sia in benzina che in diesel o cherosene per aerei.
Il via libera dell’Amministrazione Obama dà la misura dello spettacolare rovesciamento di situazione nel mercato energetico mondiale. La politica autarchica fu decisa dagli Stati Uniti a metà degli anni Settanta come risposta difensiva allo shock energetico del 1973. In quell’anno, dopo la guerra del Kippur, i paesi arabi decisero di punire l’Occidente per il suo sostegno a Israele, varando un embargo petrolifero. L’embargo dell’Opec fece quadruplicare i prezzi e gli Usa (come altri paesi occidentali, Italia inclusa) dovettero anche adottare misure di razionamento dei consumi. Un secondo shock petrolifero seguì alla fine degli anni Settanta, legato alla cacciata dello Scià di Persia e alla rivoluzione iraniana. Da quel periodo gli Stati Uniti decisero che le risorse energetiche presenti nel loro sottosuolo dovevano essere riservate al consumo nazionale, per tentare di ricostruire un minimo di autosufficienza ed essere meno vulnerabili al ricatto Opec. In questo embargo erano ammesse solo poche eccezioni. Una riguardava l’export verso il Canada, paese a sua volta ricco di risorse e generoso di vendite ai clienti americani. L’altra eccezione riguardava la vendita di alcuni prodotti petroliferi già raffinati, sui quali l’industria petrolchimica americana aveva margini di profitto superiori.
Da qualche anno l’intero scenario energetico è sconvolto da cambiamenti giganteschi. Tra il 2011 e il 2013 la produzione di petrolio negli Stati Uniti è aumentata di 1,8 milioni di barili al giorno. Questo è dovuto all’adozione di nuove tecnologie come la trivellazione orizzontale e il fracking che contribuiscono anche al boom di estrazione di gas naturale. Le proiezioni dell’Agenzia internazionale dell’energia, basata a Parigi, indicano che gli Stati Uniti hanno già superato la Russia come produttori di gas e vedono all’orizzonte di un decennio o due il sorpasso sull’Arabia saudita per la produzione di petrolio.
In questa sovrabbondanza, i prezzi del petrolio ultraleggero che è il più comune negli Stati Uniti, sono scesi di 10 dollari al di sotto delle quotazioni del greggio più diffuso sui mercati mondiali. Uno squilibrio che è possibile solo fintanto che dura l’embargo e i mercati non sono “vasi comunicanti”. La lobby petrolifera americana da anni chiede una liberalizzazione dell’export. Finora però le sue pressioni si erano scontrate con quelle di una lobby altrettanto potente e ben rappresentata al Congresso: gli utenti industriali. Dal settore chimico fino ad altri comparti manifatturieri, il capitalismo americano ha difeso a oltranza il privilegio di poter comprare energia a tariffe molto inferiori al resto del mondo, un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza estera.
Anche gli ambientalisti sono contrari: secondo loro la liberalizzazione dell’export ritarda la conversione alle energie rinnovabili. A convincere Obama che l’embargo va superato, hanno contribuito in modo decisivo le vicende dell’Ucraina e dell’Iraq, nonché le pressanti richieste degli alleati europei. Secondo le stime della Brookings Institution, già dall’anno prossimo l’export di petrolio ultraleggero dagli Stati Uniti raggiungerà i 700 mila barili al giorno.
Federico Rampini, la Repubblica 26/6/2014