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 2014  giugno 22 Domenica calendario

ALDO E SAUL, GENIALITA’ «ALLA KOK»

Avete presente quei fiori che si chiamano «soffioni» (è una varietà di tarassaco) e che, quando è stagione, basta avvicinarli alla bocca, soffiare leggermente e vedere la lieta tempesta di "stelline" che si solleva e vortica per l’aria? Pffffff, pfff... e una piccola magia, nata da una banale pratica quotidiana ci si schiude davanti. Leggere la prosa di Aldo Buzzi mi ha sempre ricordato l’azione di soffiare su questi fiori. Pfff... ed ecco, dalle pagine di questo geniale, eccentrico e irregolarissimo autore del nostro migliore Novecento, sollevarsi una polvere di stelle, una sofisticata girandola di pensieri, di fascinazioni, di allusioni. Stile particolarissimo, lingua più che nitida, quell’understatement che vi lascia intravvedere, per assenza, tutta la sua vera eleganza: l’autentico snobismo di chi è troppo raffinato per farvelo notare seriamente; anzi: basta che dissimuli, che parli d’altro (come un suo titolo), che butti lì, sbadatamente, delle perle ironiche e sornione che solo quando insufflerete di nuovo sulle sue pagine noterete, come fosse la prima volta.
Non riesco ad immaginare un autore più «adelphiano» (nel senso migliore del termine; sì, ce n’è uno peggiore) di Aldo Buzzi, e non riesco ad immaginare chi meglio del suo amico fraterno Saul Steinberg avrebbe potuto "incarnare" i suoi testi, sfuggenti e precisissimi. Geniali tutti e due, come pochissimi altri hanno saputo esserlo. Discreti, appartati (certo Buzzi molto di più, Steinberg divenne giustamente celebre una volta arrivato negli Stati Uniti, eppure non fu mai famoso, nel senso deteriore della parola), fedeli a un’idea di amicizia, di solidità d’affetti che non poteva mutare proprio perché ci si intendeva sulle cose vere della vita, non sull’estro del momento. Aldo e Saul, in qualche modo, si "confermavano".
Leggete, in questa stessa pagina, la ricetta della minestrina in brodo, tratta dal libro più famoso di Buzzi, L’uovo alla kok. Non sentite allegre le stelline vagare per la pagina? Non vedete come, in poche righe, Buzzi sta raccontando un mondo e sorridendo, con voi, di quel mondo, eppure non c’è nessuna malinconia e nessuna aria di superiorità. Al contrario: Buzzi, come Steinberg, aveva il dono di rendere eccezionale la quotidianità, di celebrare il banale senza temerlo ma era capace di tirar fuori da un nulla una gemma improvvisa, come se per la prima volta i nostri occhi vedessero quella cosa che, pure, era sempre stata lì: è il segreto dei disegni di Saul, è il segreto delle divagazioni di Aldo. Le descrizioni, i viaggi di Buzzi, sono un tuffo nell’esotico che è la quotidianità. Facile fare letteratura andando alle Isole sperdute o nei sobborghi bui delle metropoli; complicatissimo farti sognare andando a Crescenzago o Gorgonzola, "vedendo" la Russia di Cechov nelle campagne di Sondrio, e, sempre, partendo per un viaggio breve e intensissimo nella parola, nel suo significato, nella sua emozione. In un passo Buzzi – narratore la cui prosa assomiglia in maniera impressionante alla "linea" di Steinberg: è sempre la stessa, ma salta da un punto all’altro, improvvisamente, come in un’esecuzione jazz – ricorda l’uso della parola «imbarcadero», così importante per uno come lui nativo di Como. L’imbarcadero, gli svizzeri ticinesi, diceva, lo chiamano, con finta parola spagnola, «debarcadero»: per loro la cosa decisiva, infatti, è mettere piede sul suolo, non sulla barca, come fanno quelli che usano «imbarcadero» (e chiedete ad Andrea Vitali se non sia così). E, a proposito: non confondiamo la leggerezza di tocco con la leggerezza di pensiero. Buzzi, nella foto di classe della letteratura italiana del secolo scorso, ha deciso di stare ai bordi, se non proprio al di fuori dell’inquadratura. È in buona compagnia, da quelle parti, credo. Con lui ci sono scrittori come Flaiano, di cui Buzzi era amico, oppure come l’obliquo Giampaolo Dossena, ma anche qualche pagina di Peppo Pontiggia tira a quella latitudini e, ovviamente, fatte le dovute proporzioni, ci aggiriamo nei sentieri e nelle atmosfere della provincia più nobile e nascosta, dove sorseggia placido la sua acqua al tamarindo il miglior Paolo Conte d’annata. Tutti intellettuali «alla kok»: consapevoli di errori e fraintendimenti, carichi di mitologie alternative, usurate le ufficiali. Gente che sa perché un menù frettoloso di trattoria si può permettere il lusso di scrivere paiard (e non Paillard), wustel, e, ovviamente, kok (gente che sa, del resto, che l’uovo alla coque si prepara nel tempo di un padrenostro o giù di lì, perché ha letto Maestro Martino), purché non ne sbagli il sapore, la miscela, l’estro e l’invenzione. Buzzi è stato sommo scrittore di cucina, proprio perché non lo volle essere: chi s’avvicinasse a lui credendo di leggere di cibi e di ricette sbaglia di grosso. Parla di vita, di viaggi, di modi d’essere. Toccato dalla grazia, impalpabile se descritto a partire dall’argomento (far diventare interessante il nulla), aveva messo in pratica, lui, quello che chiedeva agli altri scrittori: «quello che mi auguro per un buon autore è che una volta finito un suo libro si possa prima o poi riprenderlo in mano e trovarvi qualcosa che ci era sfuggito». Con la successiva avvertenza che «le verdure e i romanzi non hanno più il sapore di una volta» (pfff... pfffff....), forse se vi capita di andare dalle parti di Melzo, alla Biblioteca Comunale, dove il vulcanico libraio antiquario Andrea Tomasetig ha messo su una mostra che lo celebra e lo ricorda, nelle sue molteplici attività (aiuto regista, cineasta, architetto, scrittore, gastronomo), grazie agli eredi che hanno messo a disposizione l’archivio, ricco di inediti (lettere di Fellini, Soldati ecc.), disegni di Saul, anche voi sentirete finalmente un confortante frusciar di stelline. Dopo tutto, è stagione.
PS. E intanto, in questi giorni, è caduto il centenario della nascita di Saul Steinberg. Non mi basterebbe tutta la pagina per descriverne la grandezza: sarebbe bello trovare il modo di celebrare anche lui con una mostra, chissà, magari nella sua Milano, quella città così internazionale che lo aveva accolto e lanciato. E della quale lui, guardando al mondo da New York e dal «New Yorker», almeno di quel manipolo di vie di zona Piola, lui, no, non si era dimenticato.