Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 26/6/2014, 26 giugno 2014
DIONISOTTI E POZZI, I DUE SANTI FILOLOGI QUANDO L’ITALIA CREDEVA NELLA TRADIZIONE
Sembra archeologia, invece sono passati non più di cinquant’anni da quando due maestri della filologia e della storia della letteratura si scambiavano nobili lettere di amicizia e di studio da cui emerge una appassionata fiducia nello studio dei testi e della tradizione letteraria, cioè nella filologia. Sono Carlo Dionisotti (1908-1998) e Giovanni Pozzi (1923-2002). L’indagatore instancabile del Quattro e Cinquecento, autore di saggi memorabili (Geografia e storia della letteratura italiana è del ‘67) e il padre cappuccino ticinese che dedicò buona parte della sua vita di studioso a Francesco Colonna, a Giovan Battista Marino e al rapporto tra parola e immagine. Due protagonisti della cultura letteraria distanti tra loro una generazione, ma complici nel pensare allo studio come moralità e impegno civile.
Introducendo il loro carteggio (Una degna amicizia, buona per entrambi , Edizioni di Storia e Letteratura, pagg. 306, euro 30), Ottavio Besomi, che ha curato la raccolta andando a chiarire legami, riferimenti, allusioni, traccia i rispettivi percorsi biografici e intellettuali. L’uno, Dionisotti, nato a Romagnano Sesia, è stato uomo di «Giustizia e Libertà»; dopo gli studi a Torino e il lavoro a Roma, si è stabilito nel ’47 a Londra, dove ha insegnato per una lunga vita al Bedford College: quando prende avvio il quarantennale scambio epistolare con Pozzi, cioè nel 1957, ha al suo attivo un centinaio di saggi sulla cultura umanistica e rinascimentale. L’altro, Pozzi, originario di Locarno, ha studiato nel Collegio dei Cappuccini di Faido, ha seguito i corsi teologici nel convento di Lugano e quelli universitari a Friburgo, in Svizzera, con due maestri della filologia del calibro di Gianfranco Contini e Giuseppe Billanovich. A Friburgo, Pozzi occuperà una cattedra in Letteratura italiana, facendone, negli anni, il fulcro di notevoli équipe di giovani studiosi dove il maestro piemontese verrà spesso e volentieri invitato. Complice anche il legame di Dionisotti con il Ticino (la madre era una Cattaneo di famiglia luganese), ne nascerà un lungo sodalizio.
«Caro Padre», «Caro Professore». Il tono è molto diverso: alquanto deferente e trattenuto quello di Pozzi, più libero e scherzoso quello di Dionisotti, che spesso si concede brevi digressioni personali. Per esempio quando affiora, ormai in là con gli anni, il senso del tempo che passa, della vecchiaia («non più senilità ma decrepitudine»). 17 dicembre 1989: «Sono un compagno di viaggio vecchio e tardo, che di viaggiare non ha più voglia e che in questa deserta fine d’anno presenta la naturale e giusta necessità del sommeil de la terre – Ma ancora ho bisogno e voglia di conforto». E a proposito di un saggio manzoniano di carattere anche teologico, appena ricevuto dall’amico, aggiunge: «Mi si apre una piccola finestra, di abbaino, su di una grande vista religiosa e letteraria. È altra luce, altra aria. Non fa più per me: devo contentarmi della quotidiana penombra, di una squallida e astiosa erudizione storica». Il nocciolo delle lettere è l’officina delle carte, sin dal primo contatto, propiziato da Billanovich e che ha per argomento un lavoro di Pozzi su Francesco Colonna destinato a uscire di lì a poco, nel ‘59: il frate domenicano veneziano Colonna è stato identificato, proprio da Pozzi, come l’autore dell’Hypnerotomachia Poliphili , l’abnorme romanzo manierista, pubblicato anonimo da Aldo Manuzio nel 1499 in una delle edizioni più pregevoli della storia della stampa (con 170 xilografie). E sull’attribuzione del Polifilo e di un altro poemetto anonimo, il Delfilo , si concentrano le discussioni tra i due da quando Pozzi manifesta la convinzione che anche il secondo sia opera del Colonna: a questo proposito, in una lunga lettera del 30 dicembre 1958, Dionisotti riconosce le prove «pesanti e impressionanti» prodotte dal suo interlocutore, ma si appella alla «dirittura filologica» non nascondendo alla fine «dubbi e difficoltà molto serie» sulla paternità. La questione si protrarrà ben oltre, se in una lettera del 21 giugno 1961 a Maria Corti - che nel frattempo aveva decisamente spostato l’attenzione nell’area lombarda identificando l’autore in Marco Antonio Ceresa, della nobile famiglia piacentina - Dionisotti non fa mancare alla storica della lingua il suo autorevole assenso, mostrando un malcelato fastidio per l’ostinazione con cui Pozzi ha portato avanti la sua ipotesi.
Certo, il carattere dell’uomo non ammetteva cedimenti di sorta sulla strada dell’accertamento storico, e a volte emerge in tutta la sua irritabilità quando ha a che fare con approssimazione e dilettantismo: si vedano i bruschi rimproveri(che Besomi richiama opportunamente in nota) che Dionisotti oppone a Emilio Bigi colpevole di un abbaglio relativo a Poliziano, con annessa una dura tirata contro la «superbiuzza pseudo-archivistica e pseudo-democratica della burocrazia storicistica moderna». Il compito che Dionisotti riconosce alla propria generazione, del resto, è quello di liberare «il campo non dirò dalle erbacce, che sono creature naturali, rispettabili, ma dalle immondizie, dai rifiuti degli zingari».
Su altri interessanti filoni del carteggio si sofferma Besomi. Il primo è quello che ha per oggetto la rivista «Italia medievale e umanistica» e la stretta collaborazione con Billanovich, di cui il Pozzi era assistente a Milano. Dove appare chiaro, pur trattandosi di un annuario di studi iper-specialistici, il fermento «militante» di proposte che si incrociano e su cui Dionisotti è chiamato a far da guida, «duca e maestro». Il quale non risparmia, accanto alla cordialità gioviale e alla stima, una severità spesso condita di sottilissima ironia. Da una parte accoglierà con entusiasmo un opuscolo su Santa Maria del Bigorio («mi pare eccellente: sobrio senza scontrosità, preciso, alto e umano», 9 gennaio 1978); l’indagine su Santa Maddalena de’ Pazzi («testo eccezionale», «una via maestra della ricerca storica», 6 marzo 1987); «il bellissimo discorso floreale; bellissimo per la sostanza e, di mio gusto, anche per la forma» (alludendo alla lezione di congedo pozziana da Friburgo, lettera del 15 gennaio 1990). Dall’altra esprime senza mezzi termini le sue riserve su altri lavori, per esempio a proposito dell’Introduzione alle Castigationes Plinianae del vescovo e umanista veronese Ermolao Barbaro, con argomenti sostanziali sulla struttura del testo, sulle opzioni stilistiche, sulla datazione, sull’uso delle fonti e su altro ancora.
Le Castigationes sono una delle tante imprese avviate da Pozzi con la sua giovane équipe friburghese, a cui Dionisotti ha dato un contributo notevole specie da quando, nel 1968, prendono corpo i seminari annuali al convento del Bigorio (in Ticino), dove vengono chiamati maestri e studenti svizzeri e italiani per lezioni e discussioni su lavori in corso: vi si ritroveranno i nomi migliori degli studi letterari, da Dante Isella a Maria Corti, da Cesare Segre a Ezio Raimondi, sempre sotto l’egida dionisottiana. Generazioni di allievi, poi diventati studiosi di vaglia e preziosi editori di testi tra Umanesimo e Rinascimento, ne trarranno enormi vantaggi nel cogliere il senso della ricerca filologica come militanza etica e civile, per non dire quasi politica. Il carteggio Dionisotti-Pozzi testimonia in definitiva di un tempo in cui la vicinanza, la condivisione, la franchezza dei rapporti anche esterni all’accademia, la solidarietà umana transgenerazionale erano il motore rombante della cultura.
Il caso impone di aggiungere allo scambio di lettere tra Dionisotti e Pozzi la segnalazione della concomitante uscita, nella rivista dell’Associazione Biblioteca Salita dei Frati di Lugano («Fogli») del breve epistolario tra il frate cappuccino e l’altro suo illustre coetaneo ticinese, il poeta e critico Giorgio Orelli (1921-2013): congiunti dalla comune ascendenza continiana, Pozzi e Orelli sono «lettori reciproci», come segnala il curatore Fabio Soldini, sia pure consapevoli di una sensibile distanza nell’affrontare i testi. Una distanza che non impedisce il reciproco scambio di «doni»: dall’Adone del Marino edito da Pozzi agli «accertamenti verbali» di cui Orelli è stato un maestro affabile e molto molto rimpianto dai suoi numerosi amici, vecchi e giovani.