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 2014  giugno 26 Giovedì calendario

VIAGGIO A ABU GHRAIB DOVE C’ERA IL CARCERE ORA È TERRA DI NESSUNO

Terra di nessuno è più o meno dove finiscono i posti di blocco affidabili, il traffico si fa quasi nullo, sul lato della strada neppure un negozio aperto. Terra di nessuno è il ragazzino che racconta di aver appena visto un camionista fermato da uomini armati, ucciso pochi secondo dopo, quindi abbandonato cadavere sul selciato e gli assassini partirsene indisturbati sul suo mezzo. Terra di nessuno è la fine della sicurezza, non sapere cosa attendersi dal prossimo incontro, echi di spari isolati, l’assenza di autorità e confini certi: un misto di banditismo, guerriglia e milizie in lotta tra loro.
Questa è la terra di nessuno che domina adesso le campagne e i villaggi alle periferie di Bagdad. I rappresentanti del governo di Nouri al Maliki annunciano trionfanti che la «controffensiva è cominciata», che i «terroristi sono accerchiati» a oltre 150 chilometri a nord della capitale, attorno nella zona di Samarra. Lo stesso premier sciita si sente tanto tranquillo da dirsi contrario al governo di unità nazionale, pur se suggerito dagli Stati Uniti assieme a larga parte della comunità internazionale, e invece deciso a perseverare nella formazione di una coalizione che rispecchi il suo personale successo alle elezioni del 30 aprile. Maliki controlla quasi 100 seggi sui 328 del parlamento, sulla carta potrebbe tornare a dominare una cordata di partiti solo sciiti.
In verità è sufficiente viaggiare un paio d’ore in auto lungo un grande semicerchio che dista tra i 20 e 40 chilometri nord-ovest dalla periferia della capitale per cogliere quanto l’emergenza sia ormai incombente. Prima tappa, Abu Ghraib, a occidente. Questa è la porta della città verso Al Anbar, la regione sunnita per eccellenza che il governo ha perso già nell’autunno scorso. Per raggiungerla si sfiorano Amiriya, Ghazaliya e Al Khadr, tre quartieri tutti sunniti controllati agli ingressi da massicci posti di blocco militari. Vi transitano solo i residenti muniti di regolare permesso. «Sappiamo che qui dentro sono già pronte cellule armate di guerriglieri sunniti. Stanno nascoste. Scatteranno all’attacco solo quando arriverà l’ordine di unirsi alle colonne in arrivo da fuori», spiega Muthanna (non vuole si pubblichi il cognome), noto responsabile di un’agenzia privata irachena che si occupa di garantire la protezione delle compagnie straniere. Noi proseguiamo sulla strada vuota per altri 15 chilometri, entriamo nella municipalità di Abu Ghraib. Ma poco distante dal nucleo urbano i militari fanno passare. Poco più avanti c’è il famoso carcere. Era il luogo delle torture per i prigionieri di Saddam Hussein, tuttavia il suo nome è legato allo scandalo degli abusi perpetrati dagli americani contro i baathisti nel 2004. Il governo Maliki lo aveva riaperto. Ma la seconda settimana di aprile ha dovuto spostare d’urgenza i suoi 2.400 detenuti. Si rischiava un assalto in grande stile con fuga di massa dei prigionieri. Da allora le avanguardie dello Stato Islamico del Iraq e del Levante sono arrivate anche qui.
Adesso domina la guerriglia. Cinque o sei taxisti locali si occupano di portare cibo e aiuti agli abitanti. Chi ha i documenti in regola può utilizzarli. Ma non trasportano giovani uomini, solo donne, vecchi e bambini. «Settimana scorsa avevo sul tetto una bara con il cadavere di un soldato curdo. La famiglia lo chiedeva per la sepoltura. Mi hanno però fermato i guerriglieri islamici e volevano uccidermi. Per fortuna qualcuno ha riconosciuto il mio nome, che è quello di un clan sunnita di Falluja. Allora mi hanno lasciato andare, ma la bara è stata scoperchiata, il cadavere lasciato in pasto ai cani», racconta uno di loro. Tre colleghi tuttavia puntano il dito contro l’esercito di Maliki: «Sono soldati per finta. In realtà trionfa la corruzione. Chiedono soldi ai posti di blocco, e proteggono le milizie sciite che uccidono, buttano fuori i civili sunniti dalle loro case. Sta fiorendo il mercato dei rapimenti. Chiedono 30.000 dollari sull’unghia per la liberazione. Se non paghi sei morto». Ad Abu Ghraib mancano elettricità e benzina. L’acqua arriva dai pozzi privati.
Le incertezze della terra di nessuno sono ancora più pesanti oltre il villaggetto di Taji, sulla superstrada del nord che corre lungo il Tigri e punta a Tikrit e Mosul, le nuove capitali della rivoluzione sunnita. Salendo verso nord, a destra stanno gli sciiti, a sinistra i sunniti. C’è caldo, immondizie ovunque, polvere. In una zona di baracche dove i camionisti cercano un panino e pezzi di ricambio a buon mercato tre quarti delle botteghe sono serrate. «Chiudiamo a mezzogiorno. Ieri pomeriggio qui hanno sparato», dice Mahmoud Farham, 51 anni, gommista. Il proprietario di un minuscolo alimentari fa l’elenco delle località attorno alle quali sono stati visti piombare sparando i gipponi dei jihadisti: Sabalbur, Dur Sikek, Tarmiya. Rafed Bandar, 40 anni, capo tribale della cittadina di Dujail, una sessantina di chilometri da Bagdad, ci spiega che la guerriglia jihadista non ha ancora il controllo fisso del territorio, attacca e si ritira, saggia il terreno. «Domenica pomeriggio sono arrivati in sette gipponi una quarantina di uomini. La battaglia è durata sino al tramonto. Noi eravamo pronti e si sono ritirati. Ma c’è paura. Torneranno. Sono forti, pronti a morire, non si arrendono mai».