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 2014  giugno 25 Mercoledì calendario

QUANDO I COBRA FUMANO – [EDITORIALE]


[note alla fine]

1. IL BRASILE CONTA MOLTO IN UN SUBCONTINENTE CHE conta poco. Domina il Sudamerica, spazio secondario nel planisfero geopolitico presente e passato. È uno Stato di dimensioni continentali al centro di quell’America Minor, tra Rio Grande e Patagonia, che vista da Washington resta periferia imperiale. Può dunque sentirsi «gigante per sua propria natura», come vuole l’inno nazionale, e insieme soffrire del «complesso del bastardino», stigma coniato sotto l’effetto della «Hiroshima brasiliana»: il Maracanaço, l’inconcepibile sconfitta casalinga contro l’Uruguay nella finale della Coppa del Mondo del 1950, quando l’intera nazione precipitò dalla festa al lutto.
Essere il centro di una periferia implica qualche sbalzo d’umore. A seconda delle fasi e delle occasioni l’accento cade sul primo o sul secondo riferimento. Il saggista José Miguel Wisnik è arrivato a stabilire una legge storica, per cui «la memoria collettiva brasiliana è demarcata e suddivisa (...) dalle Coppe del Mondo di calcio» [1]. Il gioco è la realtà. Spiega Wisnik: «Invece di sottoporre il piacere alla prova della realtà, è la realtà a essere sottoposta alla prova del piacere» [2]. Vittorie e sconfitte calcistiche ritmano la storia del Brasile.
Nulla di troppo strano in una ex colonia portoghese che, a differenza di alcune consorelle di matrice ispanica, fu prima Stato che nazione. E si sente nazione, a intermittenza, anche grazie alla passione agglutinante per o jogo bonito (Pelé). In avvio di XXI secolo, dopo cinque Coppe del Mondo vinte tra 1958 e 2002, e avendo conquistato un posto fra le prime economie del mondo, il Brasile sembrava infine proiettato a smentire la profezia per cui è e sarà sempre il paese del futuro. Il popolarissimo presidente Lula poteva credere che questo Mundial, da lui fortemente voluto, avrebbe sigillato l’ascesa del colosso sudamericano a protagonista della scena globale. Nel 2010, l’ultimo dei suoi otto anni consecutivi alla guida del paese, quasi quattro brasiliani su cinque si sentivano parte di una superpotenza in atto (24%) o prossima (53%) [3]. Tre anni dopo, sotto la meno carismatica presidenta Dilma Rousseff, quando severi aruspici già avevano annunciato il sorpasso dell’economia messicana sulla brasiliana entro il 2022 [4], nel frastuono delle polemiche su sperperi, inefficienze, corruttele connesse alla Coppa 2014, e sull’onda delle manifestazioni contro l’ingiustizia di un paese che si dota di stadi d’avanguardia a prezzi moltiplicati dalla corruzione mentre continua a esibire scuole, ospedali, infrastrutture e trasporti da Terzo Mondo, il vento era cambiato: il 55% dei brasiliani deplorava la direzione di marcia del Brasile [5]. Oggi, la stessa maggioranza stima che il Mundial porti più danni che benefici [6]. In attesa di stabilire chi alzerà la Coppa, fattore destinato a incidere, almeno a breve, sull’autopercezione brasiliana.
C’è chi continua ad attribuire alti e bassi tanto repentini al presunto carattere nazionale, che vuole il brasileiro cordiale, affabile, generoso, ma incostante perché sentimentale. Un lusitano tropicalizzato, meticcio dentro, amante della vita, brillante nelle aristocratiche virtù inattive. Refrattario ai progetti collettivi, secondo lo stereotipo costruito da Sérgio Buarque de Holanda negli anni Trenta dello scorso secolo [7], variamente ripreso da una letteratura poco compiacente verso l’homo brasiliensis quanto compiaciuta di sé.
L’antropologia delle radici spiega troppo con troppo poco. È un’ideologia che configge il Brasile in un «destino manifesto» rovesciato, da «Stati Uniti tropicali». Paese immenso, esteso quasi quanto il rivale yankee, altrettanto sicuro sul continente per carenza di nemici e protezione degli oceani, dotato da Dio d’ogni risorsa e meraviglia della natura, epperò incapace di costituirsi in potenza mondiale per causa della propensione ludica. Alcuni intellettuali brasiliani, inclinano a considerare il rango nazionale in chiave psicanalitica, tra «complesso del bastardino» e ufanismo – la retorica patriottarda dell’autoelogio diffusa nel 1900 da un celebre pamphlet di Afonso Celso, visconte di Ouro Preto [8]. Fra l’altro riecheggiata, giusta la legge di Wisnik, nell’inno Pra Frente Brasil composto in occasione del Mundial 1970, momento alto dello sciovinismo calcistico. Ma così si perde di vista la determinante geopolitica. Ovvero quell’ossimorica condizione di centro della periferia sudamericana cui le élite nazionali cercano di sfuggire per inserirsi da protagoniste nei flussi determinanti dei rapporti di forza globali, fuori dalla gabbia dell’Eden tropicale cui (si) sono da sempre costrette. Si osservi solo la frequenza nella geopolitica verdeoro del richiamo alla «inserção internacional», l’«inserimento internazionale» del Brasile «grande Stato periferico» [9] nel cacofonico concerto dei Grandi.
Al Brasile non basta essere centrale in periferia. Il primato regionale ne marca infatti la marginalità rispetto al cuore della geopolitica mondiale, imperniata sulla competizione Stati Uniti-Cina. I leader brasiliani vogliono un posto al centro del centro. Su un piede di parità con le declinanti potenze occidentali, insieme a nuovi e antichi protagonisti asiatici. Promozione da certificare con un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Una compulsiva vocazione centripeta agita le élite brasiliane, impegnate a emanciparsi dalla tabe periferica. Su scale e in modalità diverse, ma sempre al fine di corrispondere alla grandeza nacional connaturata alla taglia del paese, allargata nei secoli di fondazione dai signori dello zucchero per via verticale e dai bandeirantes per via orizzontale, oltre il meridiano di Tordesillas su cui papa Alessandro VI aveva incardinato lo spartiacque fra colonie lusitane e castigliane. Tale dialettica illumina lo stesso atto fondativo del Brasile indipendente: translatio imperii, conseguenza di un doppio movimento geopolitico. La fuga della corte da Lisbona, che nel 1808 si trasferisce nella colonia tropicale per non finire travolta dalle armate di Napoleone e vi stabilisce, nel 1815, il regno di Portogallo, Brasile e Algarve. Poi il gran rifiuto del viceré Dom Pedro che, invece di raggiungere a Lisbona il padre Giovanni VI, il 7 settembre 1822 si proclama imperatore del Brasile. Senza l’inversione di centro e periferia, per distacco dell’immenso spazio sudamericano dalla striscia lusitana della Penisola Iberica, il Brasile sarebbe assurto a centro della sua ex metropoli e il Portogallo declassato a mandamento dell’ex colonia. Sicché oggi, a Grande Lusitania ibero-brasiliana costante, l’Unione Europea si scoprirebbe transatlantica. E il Brasile bicontinentale sarebbe perciò classificato fra i primattori globali.
L’anelito alla centralità come sanzione del rango di potenza mondiale muove la scuola geopolitica brasiliana, di forte impronta germanica, dunque attratta dai «grandi spazi». La sua influenza è notevole soprattutto al tempo della dittatura militare (1964-85), ma alcuni schematismi segnati dalla geografia politica tedesca di fine Ottocento, adattati al volontarismo di scuola francese, si riflettono tuttora nella visione del mondo dei decisori di Brasilia. Rilevante e rivelatrice è l’eredità di due geostrateghi, entrambi generali: Carlos de Meira Mattos (1913-2007), autore di un’eloquente Projeção mundial do Brasil (1959), cui le Forze armate tuttora intitolano alcuni seminari interni di geopolitica. E soprattutto Golbery do Couto e Silva (1911-87), secondo cui il Brasile occupa «il centro dell’universo» [10]. Per dimostrarlo, nel suo Geopolítica e poder (1967) il generale si serve di un originale planisfero imperniato su San Paolo, con proiezione azimutale, obliqua ed equidistante. Golbery si toglie così qualche soddisfazione: nel mondo alla brasiliana l’Europa è ridotta a minima appendice della massa eurasiatica, l’Atlantico meridionale a mare nostrum, paradossale mediterraneo compresso fra America e Africa, stretto dalla fascia Natal-Dakar (paragonata alla morsa Sicilia-Tunisia, quasi l’oceano fosse un collo di bottiglia). Il Brasile è il cuore dell’asse geopolitico centrale che lega l’Alaska all’Australia via Antartide, a delineare una verticale della potenza di matrice occidentale in quanto panamericana. Quel Brasile mondiale in assetto di guerra fredda si vede perno dell’Occidente, alleato con la «fortezza-arsenale» statunitense. Su base paritaria, non da ancella, come lo pensa Washington. Tanto che l’idea golberiana di sicurezza nazionale esprime la teoria dei tre emicicli, di cui il primo, con raggio medio di circa diecimila chilometri, esteso dal Nordamerica a mezzo Antartico e all’Africa atlantica via Brasile, dev’essere impermeabile a infiltrazioni nemiche [11]. E deve impegnarsi nella protezione dello spazio amazzonico (inclusa l’ampia cintura oceanica battezzata «Amazzonia azzurra»), che molti a Brasilia tuttora sentono minacciato da pretese d’internazionalizzazione giustificate in termini di peloso ambientalismo. Surrogato d’imperialismo.
Echi della geopolitica golberiana giungono fino alla vigente dottrina nazionale di difesa, che convoca il concetto di «vicinanza strategica» («entorno estratégico»), sinonimo dell’autodefinita sfera d’influenza brasiliana estesa all’intera America Latina, all’Atlantico del Sud, all’Africa subsahariana e all’Antartide. La proiezione verso il continente antartico, dove il Brasile possiede una base visitata da Lula e signora il 16 febbraio 2008, verrà poi corroborata da un’altra autorevole geostratega, l’accademica Therezinha de Castro (1930-2000), cui si deve la tesi della defrontação o prospettiva frontale, volta a mostrare la brasilianità di una sezione dell’Antartide, popolarizzata nell’Atlante storico scolastico del ministero dell’Educazione e della cultura edito nel 1969 [12.
Su questo sfondo si intuisce meglio la vocazione delle gerarchie diplomatiche e militari brasiliane. Il ministro della Difesa di Dilma, già titolare degli Esteri con Lula, ambasciatore Celso Amorim, epigono della tradizione diplomatica inaugurata nel primo Novecento dal barone di Rio Branco, esprime la pulsione alla grandeza nacional quando traccia, nel 2010, il più che positivo bilancio della politica estera lulista (e sua) [13]. Dove lascia cadere un’espressiva citazione letteraria. Il riferimento è al romanzo di Lima Barreto La triste fine di Policarpo Quaresma (1911), nel quale il protagonista spiega che «la grande patria della Croce (del Sud, n.d.r.)», il Brasile, «non ha bisogno d’altro che di tempo» per assurgere a grande potenza, ossia «a superare l’Inghilterra». Infatti, «godendo di ogni clima, (...) ogni frutto, ogni utile animale e minerale, la migliore terra fertile e il popolo più coraggioso, gentile, ospitale e intelligente del mondo – che cos’altro potremmo volere? Tempo e un po’ di originalità» [14]. Quanto al tempo, ai brasiliani non manca la pazienza, anche quando sembra la stiano perdendo. Né alcuno può indiziarli di scarsa originalità. Come nota Amorim, esibendo in vena insieme ufanista e provinciale un titolo di Le Monde, la geopolitica lulista postula «una diplomazia immaginativa». Tanto fantasiosa da far apparire grigia quella di Dilma, che ne ha pigramente seguito le orme. Sempre tenendo fisso il traguardo del Brasile centrale. Mai più periferico. Grande fra i Grandi.

2. Dopo «cinquecento anni di periferia», come l’ambasciatore Guimarães battezzò il tragitto del Brasile dallo sbarco di Cabral (23 aprile 1500) alla presidenza del modernizzatore Fernando Henrique Cardoso (1995-2003), su quali carte puntare per guadagnarsi un posto al centro del sistema internazionale? [15]. Eppoi, dov’è il centro in un contesto mondiale non più rappresentabile sotto forma di «perno e raggi», semmai come «una mappa della metropolitana, con le sue linee intrecciate e la rete di stazioni, alcune delle quali, naturalmente, restano più importanti delle altre», stando alla immaginifica rappresentazione di Amorim? [16]. Non si tratta di avvicinare il punto-cardine di un sistema che non è più, quello centrato sulla strapotenza a stelle e strisce del decennio 1991 (fine dell’Urss) – 2001 (Torri Gemelle). Conviene invece partecipare all’occupazione degli spazi di manovra liberati dalla (relativa) ritirata statunitense conseguente alla disastrosa «guerra al terrorismo». Senza l’accorciamento delle linee di esposizione strategica Usa, la sfida delle «potenze emergenti», Brasile incluso, sarebbe stata ben più ardua. Se ad esempio Lula fosse stato eletto prima dell’11 settembre 2001 (attacco saudita all’America vestito da follia terroristica) e soprattutto della crisi finanziaria scoppiata nel 2008 a Wall Street, i margini della sua geopolitica a passo di samba sarebbero stati pressoché inesistenti, giacché la bulimia della «superpotenza unica» concedeva agli aspiranti coprotagonisti appena qualche briciola.
Allo stesso tempo, Washington resta in grado, grazie al signoraggio del dollaro, di ricordare agli emergenti regionali (India, Turchia, Sudafrica) e ai riemergenti vocazionalmente globali (Cina, Russia, lo stesso Brasile) chi è ancora Number One. Nella metafora di Amorim: la stazione principale del metrò. Di più: le onde sismiche di un planisfero geopolitico e geoeconomico in frenetico assestamento suscitano il caos sufficiente a domare le velleità egemoniche di chiunque, americani e cinesi inclusi. Per il Brasile e le altre potenze in ascesa, l’aspirazione massima è compartecipare alla gestione del mondo apolare. Essendo ammessi nell’assai mobile aristocrazia geopolitica, certificata da sigle e acronimi d’irradiamento globale. Non vere alleanze, tantomeno un concerto mondiale. Reti di potere formali e informali, architetture da Sagrada Familia, dove pietre angolari e mura portanti sono difficilmente identificabili, comunque provvisorie.
Curando di non rompere, né tirare troppo la corda con gli Stati Uniti, prima Lula, con entusiasmo e inventiva, poi Dilma, senza troppo esporsi, hanno aperto al mondo non occidentale. A quell’umanità numericamente ultramaggioritaria ma geopoliticamente sottorappresentata che non ne può più delle istituzioni di Bretton Woods, del Washington Consensus e dei paternalismi occidentali, che tratta il G8 da relitto tardoimperialista per guardare al più ecumenico G20.
La crisi finanziaria globale «è stata prodotta da uomini bianchi con gli occhi azzurri», ha stabilito Lula [17]. Con ciò proponendosi come faro ai coinquilini del Sudamerica, ai cui orecchi quell’invettiva anti-Usa di sapore etnico poteva suonare financo moderata. E offrendosi come riferimento latinoamericano a cinesi, russi, indiani: affiliati con i brasiliani nel gruppo dei Bric, poi Brics in quanto allargato al Sudafrica in uno slancio di terzomondismo transcontinentale.
La prassi smentisce la retorica dell’Itamaraty, il glorioso ma oggi meno influente ministero degli Esteri di Brasilia, che indica nell’integrazione sudamericana la priorità della geopolitica nazionale. Il Mercosur è in stallo. L’Unasur, uno scheletro. Al Brasile il Sudamerica sta stretto. Inversamente, i partner subcontinentali lo percepiscono troppo ingombrante, quando non imperialista. Di integrazione (geo)politica non sipario più, anche se la si sogna – ognuno a suo modo. Nella sua estroversione tous azimuts, Brasilia guarda più alla Cina che all’Argentina o al Venezuela. Cerca pari grado, dovunque siano, non vicini inferiori e inaffidabili.
I Brics non formano un gruppo omogeneo né particolarmente strutturato. Ma questa strana famiglia comprende i tre colossi (eur)asiatici in dialogo/competizione permanente con gli Stati Uniti. Affiancare Cina, Russia e India significa connettersi all’Asia emergente che tratta con Washington le partite economiche, strategiche e immateriali di rilevanza globale. Gli «uomini bianchi dagli occhi azzurri» devono tener conto dei brasiliani d’ogni colore, in quanto associati al drappello degli sfidanti globali. Nei Brics, Brasilia contende a Delhi l’ultimo posto sul podio, con Pechino prima inter pares e Mosca non brillantissima seconda. Il Brasile non ha l’atomica come Russia, Cina e India, anche se potrebbe dotarsene in pochi mesi, violando il simpatico stereotipo delle Five S (Sun, Samba, Sands, Soccer, Sex) su cui verte il suo soft power; non dispone di un seggio permanente né dunque del veto in seno al Consiglio di Sicurezza, come Cina e Russia; l’economia nazionale, malgrado il confortante inizio di secolo, non poggia su una base industriale paragonabile a quella cinese, piuttosto emula l’asfittico modello russo, condannato all’export di materie prime, nel caso brasiliano più agricole e minerarie che fossili. Eppure Brasilia esibisce con fierezza la medaglia Brics. La collocazione intermedia – con l’India, dopo Cina e Russia, davanti al Sudafrica – rende il duplice scopo geopolitico inscritto nel gene Brics: irrobustire credibilità e voce di ciascun socio nella competizione con gli Stati Uniti; intessere una rete degli «emergenti» lungo l’asse Sud-Sud, che a Brasilia sta specialmente a cuore, come confermano il sotto-asse Ibsa (India-Brasile-Sudafrica, tre grandi democrazie multiculturali e multirazziali sul mercato dei brand geopolitici) e la Comunità dei paesi di lingua portoghese (Lusosfera), che integrando l’Angola rafforza la proiezione brasiliana nell’Atlantico del Sud, mentre coagula intorno all’idioma comune circa 245 milioni di lusofoni.
Brasilia riporta il peso delle sue relazioni transcontinentali nello spazio panamericano. Per consolidare la primazia subcontinentale, esibirsi unica potenza latina su scala globale, interlocutrice di Washington su basi meno sbilanciate. E per irrobustire la proiezione centroamericana e caraibica, di cui la missione militare a Haiti è il più recente, visibile tassello.
L’alto profilo d’immagine garantito dagli impegnativi marchi Brics e G20 implicherebbe una geopolitica attiva, non solo ambiziosa. Il Brasile sembra invece interessato al marchio più che alla sostanza. Ad esempio, che senso ha rivendicare un seggio permanente al Palazzo di Vetro se su ogni questione di peso Brasilia si astiene? Così in tutte le crisi recenti, dalla Libia alla Siria all’Ucraina. La diplomazia brasiliana si orienta sugli altri Brics, talvolta allargati alla Germania, spesso capaci di mobilitare – nelle sedi Onu e non solo – decine di paesi non allineati, terzomondiali o comunque insofferenti verso le pretese di ciò che resta dell’Occidente.
Brasilia critica Washington sui grandi temi del clima, delle regole commerciali (memorabile il sabotaggio lulista dell’Area di libero scambio panamericana, cara a Bush) e degli interventi «umanitari», ma scansa lo scontro diretto. Salvo quando nel settembre 2013 Dilma scopre che le sue comunicazioni sono intercettate dallo spionaggio americano e offesa cancella una visita di Stato con pranzo di gala alla Casa Bianca. Né all’Itamaraty hanno dimenticato lo schiaffo del maggio 2010, quando le diplomazie turca e brasiliana riescono a strappare a Teheran un compromesso sul programma nucleare secondo condizioni che originariamente a Washington erano parse accettabili, nella certezza (speranza) che quel negoziato sarebbe fallito. Poche ore dopo l’annuncio dell’accordo Obama provvede a silurarlo. Il presidente non ammette che un paio di «emergenti» gli rubino la scena. I diplomatici di Brasilia amano citare al riguardo il commento dell’allora direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia nucleare, l’egiziano Muhammad al-Baradi’i: «Sembra che gli americani non potessero considerare sì una risposta» [18].
Vista da Washington, Brasilia è più un fastidio che una risorsa. Percezioni americane e autopercezioni brasiliane non collimano. Certo, il grande paese sudamericano è una democrazia che si richiama ai valori e alle tradizioni occidentali, caso unico nei Brics – a meno di non considerare l’anglofonia delle élite indiane prova della loro appartenenza alla civiltà euroamericana. Eppure il Brasile si allinea quasi sempre alle altre potenze emergenti, flirta con le sinistre anti-yankee in Sudamerica e altrove, si offre baluardo anticolonialista agli africani con paternalismo neocoloniale. Soprattutto, si lega a Pechino. Dal 2009 la Cina ha scavalcato gli Stati Uniti quale principale partner commerciale del Brasile. Agli americani risulta poi incomprensibile la fissazione sulla grandeza nacional. Washington non concede uno status paritario a nessuno, nemmeno a Pechino. Figurarsi a Brasilia. Se la grandiosità brasileira si esprime in continue punture di spillo – addolcite da suadenti sorrisi – nei confronti degli «uomini bianchi dagli occhi azzurri», risulta difficile alla Casa Bianca concepire una speciale simpatia per la «stella del Sud». Semmai il contrario.
Gli Stati Uniti ostentano nei confronti della principale entità, meridionale della propria sfera d’influenza panamericana un benign neglect alternato a segnali d’irritazione e a contromisure intese a riportare il Brasile alle sue «vere» dimensioni. Anche per punirne l’intrinsechezza con Pechino, che aiuta la penetrazione cinese in America Latina. Tra le contromosse di Washington, la ricostituzione nel 2008 della Quarta Flotta, spina nel fianco delle ambizioni di Brasilia nell’Atlantico meridionale, massimo connettore commerciale fra il colosso sudamericano e il resto del mondo. Di più, l’appoggio all’Alleanza per il Pacifico, che unisce quattro democrazie liberiste Cile, Perù, Colombia e Messico – interessate ai mercati asiatici emergenti ma fedeli agli Stati Uniti e rivali della costellazione neobolivariana imperniata sul Venezuela – peraltro in preda all’ennesima crisi ed estesa da Cuba all’Argentina, dal Nicaragua all’Ecuador e alla Bolivia. A limitare la dominanza subcontinentale del Brasile e i suoi progetti di accesso al Pacifico. Di avvicinamento a Pechino.
Né il Brasile è coinvolto nella Trans-Pacific Partnership (Tpp), progetto americano destinato a creare un’area di libero scambio nell’Asia-Pacifico, pilastro della strategia di contenimento della Cina (e dei Brics). Certo, il Brasile non affaccia sul Pacifico (eppure alcuni candidati alla Tpp sono bagnati dall’Indiano). Ma pur disponendo di 7.491 chilometri di costa atlantica, non è ammesso nemmeno agli alquanto misteriosi negoziati euro-americani per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), succedaneo geoeconomico della Nato su cui molto punta Obama (meno il Congresso). Risultato: nel caso gli Stati Uniti riuscissero a impiantare le due braccia di un’area di libero scambio atlantico-pacifica dalla marcata configurazione anti-Brics (Brasilia, Mosca e Pechino ne sarebbero escluse, Delhi forse no), il Brasile si vedrebbe riconfinato nell’ambito tropicale. Circondato da vicini rancorosi e poco attraenti (Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia), quando non avversi (i quattro dell’asse pacifico). Altri cent’anni di periferia?

3. «Una squadra brasiliana all’attacco – ciò che fa quasi sempre – sembra una banda di ballerini a carnevale. (...) I giocatori sono talmente intossicati dalle proprie brillanti manovre da dimenticare talvolta che scopo dell’esercizio è segnare gol». Così Henry Kissinger, con il pragmatismo strategico e la competenza calcistica che lo distinguono, coglie fascino e limiti dell’approccio brasiliano al futebol, dunque alla realtà [19]. Tale diagnosi si può applicare con profitto alle stagioni di crescita dell’economia e quindi delle ambizioni geopolitiche del Brasile – come durante i sei anni del «miracolo brasiliano» (1967-73), quando il pil crebbe a tassi superiori al 10% – regolarmente finite in coda di pesce. Intossicati dal successo, invece di cavalcare l’onda per incardinare nel corpo sociale e politico del paese le fondamenta di un progresso duraturo, i brasiliani cedono all’autocompiacimento, quasi una regia interiore li inducesse a riprodurre schemi e atteggiamenti destinati a negare entrambi i principi ricamati sulla bandiera verdeoro: Ordem e Progresso. Sintesi del motto di Auguste Comte – «l’amore come principio, l’ordine per base, il progresso quale scopo» – il cui positivismo fondato sull’indagine razionale delle leggi sociali non pare aver troppo penetrato la mentalità brasiliana. Certo, sotto la pressione degli eventi, di tanto in tanto i leader promettono svolte epocali. Il presidente Juscelino Kubitschek (1956-61), che legò il suo nome alla fondazione di Brasilia, varò l’ambiziosissimo piano di riforme «Cinquant’anni in cinque», neanche camminasse sulle acque. E la presidenta uscente, Dilma Rousseff, incalzata dalle proteste dello scorso giugno, si è lasciata scappare la promessa di un’assemblea costituente di cui si sono perse le tracce. Ma gli annunci non fanno politica. Di qui il senso di frustrazione che offusca il ciclo sopra Brasilia dopo i memorabili anni di Lula, nel segno della crescita, della perequazione sociale e del protagonismo internazionale. Il rallentamento dell’economia, le fiammate inflattive, gli scandali politici e gli scontri di piazza che colorano di tinte scure la parabola finale del primo (ultimo?) mandato di Dilma, precipitano il paese nella prigionia del già visto. La Coppa del Mondo di calcio e le Olimpiadi carioca 2016, intese coronare la stagione dei grandi eventi inaugurata nel 2007 con i Giochi Panamericani di Rio, minacciano di passare alla storia per i disastri organizzativi, le architetture incompiute, i costi stellari manipolati a uso dei politici locali. A confermare il recente revisionismo storico per cui i Grandi Eventi, supposti moltiplicatori di potenza, annunciano spesso l’inverno nazionale (ricordate Atene 2004?).
Nessuna brillante progettazione geopolitica destinata a incardinare il Brasile nel club degli ottimati globali, vecchi (occidentali) e nuovi (asiatici), a codeterminare le regole del gioco internazionale, può concepirsi vincente senza attaccare i deficit creditori che deviano e deformano la crescita del paese. Dalla carenza di infrastrutture che esalta i vincoli geofisici – i quali tuttora ritagliano una varietà di Brasili quasi incomunicanti nell’immenso spazio nazionale – alla cronica fragilità del capitale umano, frutto di un apparato educativo incongruo allo sviluppo delle forze produttive, alle deficienze del sistema sanitario, che costringono Dilma a importare medici cubani, come un Venezuela qualunque.
Sopra tutto e prima di tutto, la radice razziale delle diseguaglianze sociali. Quando Pelé condusse la Seleção al trionfo mondiale di Città del Messico, si volle attribuire alla «perla nera» il compimento dell’integrazione dei brasiliani d’ascendenza africana, avviata dalla principessa Isabela nel 1888 con l’abolizione della schiavitù. Eccesso di ottimismo. Vari decenni più tardi, la stella massima della Seleção dopo (lui dice prima) Pelé, Ronaldo, ha spiegato che il razzismo resiste, eccome, «e quando ero nero ne ho sofferto anch’io» [20]. Tradotto: adesso non sono più colorato, perché sono ricco.
Le scene di ordinaria violenza che appannano la gaudente fama delle metropoli brasiliane, la fallimentare bonifica delle favelas, la visibile persistente equazione fra ceto e razza possono indurre a trascurare i progressi che il Brasile ha compiuto sotto Lula e Dilma. Se centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani non proprio sottoproletari, agitano le piazze di San Paolo, Rio e Brasilia reclamando diritti e servizi da paese civile, lo si deve anche alla crescita di una piccola borghesia finalmente sottratta alla lotta quotidiana per la sopravvivenza. Milioni di nuovi consumatori non si accontentano dell’accesso al mercato di beni fino a ieri inattingibili, dalla lavatrice all’automobile, dal televisore al computer. Vogliono diventare cittadini. Quanto meno, ne pretendono i diritti, personali e di gruppo o corporazione. Di qui a maturare una coscienza civica molto ne corre – non per caso quasi trenta milioni di brasiliani sono d’origine italiana. Ma perché disperare, e non invece scommettere sul cambiamento come possibile esito della corrente crisi di crescita?

4. 2 luglio 1944: il primo scaglione della Forza di spedizione brasiliana (Força Expedicionária Brasileira, in sigla Feb), che arriverà a inquadrare venticinquemila soldati, s’imbarca per Napoli. Rompendo gli indugi neutralisti e accantonando l’ammirazione per Mussolini, nel gennaio 1942 il presidente Getúlio Vargas ha deciso di contribuire militarmente all’impegno alleato. E per compiacere gli yankees schiera i suoi boots on the ground. Non gratis. Ancora una volta, a muovere i brasiliani è il sogno di grandezza: Roosevelt ha promesso a Vargas di ricompensarlo con un seggio permanente alle Nazioni Unite.
A settembre i febistas sono sul fronte, presso Lucca. Partecipano all’offensiva finale per la liberazione d’Italia dai tedeschi e dai fascisti di Salò. Fra loro, alcuni futuri protagonisti della scena politico-culturale: Golbery do Couto e Silva, Carlos de Meira Mattos, Humberto de Alencar Castelo Branco (presidente dal 1964 al 1967), il calciatore José Perácio, la scrittrice (allora infermiera) Clarice Lispector e l’ultimo segretario generale del Partito comunista brasiliano, Salomão Molina. Sulla divisa un curioso stemma, che incornicia un cobra mentre gusta la pipa, a illustrare il motto «A cobra está fumando». Si allude al luogo comune degli scettici, per cui «è più facile che un cobra fumi la pipa piuttosto che il Brasile partecipi alla guerra in Europa».
II sacrificio dei soldati brasiliani non maturerà i frutti geopolitici sperati. Truman non manterrà la promessa di Roosevelt, né Obama intende occuparsene. Forse il Brasile non otterrà mai quel seggio fisso al Palazzo di Vetro che dovrebbe sancirne lo status di Grande. O forse sì. Sarà perché altri brasiliani, seguendo in pace le orme dei febistas, avranno infine attuato le riforme politiche e sociali utili alla maggior gloria di una patria potente perché giusta. A ricordare al mondo che, quando serve, in Brasile i cobra fumano.


1. J.M. WISNIK, «O futebol como veneno e remédio», in AA.VV. (a cura di F. SCHÜLER e G. AXT), Brasil Contemporâneo. Crônicas de um país incógnito. Porto Alegre 2006, Artes e Ofícios, p. 221.
2. Ibidem.
3. Cfr. M. CÁRDENAS, J. A. DE CASTRO NEVES, «Brazil’s Post-Lula Foreign Policy», Brookings Institute Opinion, 15/10/2010.
4. K. RAPOZA, «Can Mexico Overtake Brazil By 2022», Forbes, 8/11/2012.
5. J. MENASCE HOROWITZ, «Dissatisfaction in Brasil, Despite Positive Views of the Economy», Pew Research Center, 21/6/2013.
6. P. KIERNAN, «Public Opinion on Hosting World Cup Worsens in Brazil», The Wall Street Journal, 8/4/2014.
7. S. BUARQUE DE HOLANDA, Raízes do Brasil, São Paulo 1995 (26ª edizione), Companhia das Letras. L’originale è del 1936.
8. A. CELSO, Porque me ufano do meu país, versione ebook disponibile all’indirizzo www.ebooksbrasil.org/eLibris/ufano.html
9. Sul concetto di «grande Stato periferico» vedi l’opera dell’ambasciatore S.P. GUIMARÃES, Quinhentos anos de periferia: una contribução ao estudio da política internacional, Porto Alegre e Rio de Janeiro 2000, Editora da Universidade e Contraponto.
10. G. Do COUTO E SILVA, Geopolitica e Poder, Rio de Janeiro 2003, UniverCidade Editerà, p. 215.
11. Ivi, pp. 215 ss.
12. Sulla defrontação e più in generale sulla scuola geopolitica brasiliana cfr. R. NOCELLA, «Pensare in grande», quaderno speciale di Limes, «La stella del Sud», 2007, pp. 67-79.
13. Cfr. C. AMORIM, «Brazilian Foreign Policy under President Lula (2003-2010): An Overview», Revista Brasileira de Política Intemacional, n. 53 (special edition), 2010, pp. 214-240.
14. Ivi, p. 240.
15. Cfr. S. P. GUIMARÃES, op. cit.
16. Cfr. C. AMORIM, op. cit., p. 215.
17. A. GRICE, «Financial Crisis “Caused by White Men with Blue Eyes”», The Independent, 27/3/2009.
18. Intervista di M. AL-BARADI’I al Jornal do Brasil, 30/5/2010.
19. H. KISSINGER, «World Cup According to Character (1986)», www.ashbrook.org/articles/kissinger.html
20. Citato dallo scrittore Luiz Ruffato nell’intervista a Der Spiegel, «Wir waren immer gewalttätig», n. 20, 12/5/2014, p. 77.