Michele Smargiassi, la Repubblica 25/6/2014, 25 giugno 2014
IL NERUDA DEI FOTOGRAFI CHE ISPIRÒ BLOW-UP
C’era una volta un piccolo profeta cileno dal sorriso timido che cercò di salvare il mondo da se stesso. Era armato solo di «un rettangolo nella mano»: la cornice di un’immagine. Si chiamava Sergio Larrain ed era un «cacciatore di miracoli», come tutti i fotografi non presuntuosi. Ed è come fotografo che lo troverete citato nei libri, è come fotografo che lo vedete ricordato in questa retrospettiva delle sue opere, a due anni dalla scomparsa, nel castello di Bard incastrato fra le Alpi che forse gli avrebbero ricordato le Ande del suo esilio di meditazione.
Perché, è vero, Larrain, l’amico di Henri Cartier-Bresson e di Pablo Neruda, fu fotografo e lo fu nell’Olimpo dei reporter, recluta sudamericana dell’agenzia Magnum, ma lo fu per poco più di una decina d’anni. Per il resto della sua vita fu... chi lo può dire davvero. Un guru, un viaggiatore, un mistico eremita, un filosofo, forse un emarginato, un uomo fragile spesso a rimbalzo tra Lsd e psicanalisi. Un uomo pieno di amore per la vita. Un vagabondo del dharma. «Il vagabondo di Valparaiso» lo battezzò proprio Neruda, sfogliando il suo capolavoro, il ritratto di quella «rosa immonda », la città «appesa sulle colline, poema che lega le Ande e il Pacifico».
Circolano leggende, su di lui. La più insistente vuole che sia stata una sua fotografia, scattata nei primissimi Sessanta a Parigi, di sera, vicino a Notre Dame, una misteriosa scena d’amore colta senza volerlo dall’obiettivo nell’ombra della cattedrale, a ispirare da lontano il film Blow updi Michelangelo Antonioni. Dicono che Julio Cortázar, che era anche lui a Parigi all’epoca, vide quella foto e ci imbastì un racconto noir, protagonista un fotografo: Las babas del diablo . Antonioni avrebbe letto il racconto, eccetera. Ma nessuno dei tre ha mai parlato di questo complicato triangolo, e Agnès Sire, curatrice della mostra e amica di Larrain, a domanda risponde scettica: «La trama quasi poliziesca di Cortázar non appartiene all’universo di Sergio».
Chissà. Era un universo pieno di cose. E di svolte improvvise. Larrain, “el Queco” per gli amici, era nato in una famiglia ricca di Santiago, figlio di un architetto rinomato, aveva studiato ingegneria forestale a Berkeley, un ragazzo quadrato e promettente. Nel 1949, col suo primo stipendio, comprò due cose. Un flauto traverso, che restituì presto al negozio. E una Leica IIIC, «non perché volessi fotografare, solo perché era l’oggetto più bello in vetrina». Però la usò. Vagabondò con lei nelle strade, cercando. Ne fece il suo karma: «Una buona fotografia nasce solo in uno stato di grazia». Cominciò a pubblicare, sul Cruzeiro. Storie, luoghi, reportage. Qualche divinità della lente lo aveva caro. Mandò le sue fotografie al MoMa: il grande Edward Steichen gliene comprò quattro, «fu come se mi fosse apparsa la Vergine in camera».
Viaggiò. Europa, Oriente. A Parigi conobbe il pontefice del reportage: Cartier-Bresson, che lo apprezzò e lo chiamò in Magnum. Le sue foto somigliavano di più, per inquietudine e sabotaggio dei canoni, a quelle del ribelle Robert Frank: ma con HCB aveva in comune l’umanesimo, l’amore per le forme pure, il fascino per il buddismo, l’idea che le fotografie sono un dono dell’istante, una soglia che conduce al senso. Le chiamava le sue satori, l’esperienza del risveglio spirituale secondo il buddismo zen.
Fece il reporter, lo fece pure bene. Per Paris Match, lo scoop delle foto del matrimonio fra lo Scià di Persia e Farah Diba. In Sicilia, per Life, colpo grosso: fingendosi turista cileno scattò il ritratto all’imprendibile Genco Russo, il padrino dei padrini, l’erede di don Calò Vizzini. Ma «la pressione giornalistica», scrisse a HCB, «distrugge il mio amore per la fotografia». Precedendo Salgado di trent’anni, cercò le origini del mondo in Patagonia, nel Pacifico, in Oriente. Ma il suo vero mondo erano le strade del suo continente. Che nelle sue immagini sembrano popolate solo di meninos de rua. Bambini: uno straordinario fotografo di bambini. Con allarmata tenerezza. Come Lu Xun, pensava che in un mondo che cannibalizza se stesso l’unica residua speranza fosse: mettere al sicuro gli innocenti. Aveva conosciuto un maestro di meditazione, Oscar Ichazo, studioso e insegnante di filosofie orientali. Per qualche anno visse nella sua comune, ad Arica. Poi provò ancora ad affrontare il mondo. Era alla Moneda l’11 settembre 1973, il giorno del martirio di Allende: le sue foto uscirono anonime, con quelle di altri fotografi, per evitare rappresaglie.
La tragedia del suo paese finì per convincerlo: le fotografie non cambiano il mondo. Dal 1978 scelse l’eremo. A Tulahuén, nel nord del Cile, studiò la sua Via, la chiamò solo Yoga, ma era la sua, c’entrava ancora la fotografia, ma fatta solo per se stessa, fotografia del fotografare. Non si limitò a contemplare il “punto kath”, quattro dita sopra l’ombelico. Da quell’eremo cominciò a scrivere. Lunghe lettere battute a macchina agli amici, omelie senza arroganza, inviti accorati a salvare il mondo dalla corruzione, dalle convenzioni, dall’autoannientamento. Accompagnate da piccoli libri fatti a mano, disegni a matita, pitture a olio, poesie. Come si «mantiene la vita vivente» in un mondo di convenzioni? Bach, scrive, ne fu capace. E come si ammansisce il “predatore” umano? Il fotografo protagonista del racconto di Cortázar sembra rispondergli: «Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata ai fanciulli». Siamo proprio sicuri che quella storia di Blow upnon sia vera?
Michele Smargiassi