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 2014  giugno 25 Mercoledì calendario

L’INCOGNITA LIBICA

«Quando non sai che fare, falli votare». È la regola non scritta, ma ferrea, che regola l’approccio della “comunità internazionale” (leggi: coalizioni variabili invariabilmente guidate o supervisionate dagli Stati Uniti) alle missioni fallite. Ieri in Iraq e in Afghanistan, oggi in Libia, domani chissà. Il voto, supremo sigillo di una malintesa idea di democrazia, vale per noi da tana liberi tutti: siccome non sappiamo che fare in Libia e dei libici, battezziamoli democratici e che se la spiccino loro. Purché ci liberino l’accesso alle loro risorse.
Funzionerà nella nostra ex colonia ciò che non ha funzionato altrove? C’è da sperarlo. E da dubitarne. Stavolta però, comunque vada, le conseguenze ci toccheranno direttamente. Perché la Libia è alle porte di casa. Perché di lì partono scaglioni di disperati verso approdi nostrani, che molti di loro non potranno nemmeno vedere perché vittime dei criminali che li trasportano come bestiame. E perché dalla Libia estraiamo quantità non indifferenti di pregiati fossili necessari alla nostra economia.
Dunque oggi si vota per la Camera dei deputati di Libia. È la seconda volta dopo la liquidazione di Gheddafi. Gli esiti del primo voto non hanno stabilizzato il Paese. Quell’immenso territorio resta solcato, nelle sue aree strategiche, dal conflitto aperto o strisciante fra decine di milizie e di clan. I poteri formali non contano nulla. Quelli informali sono impegnati a stabilire chi di loro prevarrà, sempre nello spirito patrimonialistico del “tutto al vincitore, guai ai perdenti”, con le ricche risorse petrolifere quale prima posta in palio.
Gli elettori registrati sono un milione e mezzo, contro i due milioni e ottocentomila del precedente scrutinio. Di questi voteranno, se andrà molto bene, in sei-settecentomila.
Ossia un decimo della popolazione. Il sistema vigente, che fra l’altro non consente la presentazione di liste di partito, produrrà in diverse circoscrizioni deputati eletti da un decimo dei votanti. Inoltre, in buona parte del Paese, specie all’Est (Cirenaica) e al Sud (Fezzan), le urne non apriranno nemmeno. Mancano le più banali condizioni di sicurezza. Per tacere degli osservatori internazionali, che non rischiano la pelle per certificare la farsa.
Per la “comunità internazionale” scopo dell’esercizio è individuare finalmente un interlocutore legittimo, ossia un governo abilitato da un Parlamento eletto. Capace di firmare gli accordi utili a legittimare l’esportazione del pregiato greggio libico. Probabilità di successo: scarse. Secondo l’analisi di uno dei più acuti osservatori della scena libica, Mattia Toaldo dell’European Council on Foreign Relations, «le elezioni potrebbero accelerare la violenza». Ammesso che sia possibile contare i (pochi) voti senza spararsi addosso, resta che difficilmente gli eventuali perdenti accetteranno la sconfitta.
Oggi nel territorio formalmente noto come Libia si affrontano due schieramenti principali.
Il primo, sponsorizzato soprattutto dall’Egitto e dall’Arabia Saudita, con qualche condiscendenza occidentale, è guidato dal generale in pensione Khalifa Heftar, e conta in particolare sulle milizie di Zintan. Heftar dispone poi di una sgangherata aviazione di matrice russa.
Di fatto, una sua vittoria in quella regione significherebbe il passaggio della Cirenaica sotto l’Egitto, ossia l’accesso del Cairo agli agognati idrocarburi ivi custoditi. Non si può escludere un intervento militare del regime di al-Sisi al fine di materializzare questo antico sogno egiziano.
Il secondo raggruppamento — si fa per dire — verte sulle milizie di Misurata e sugli islamisti di Ansar al-Sharia. I Fratelli musulmani vi esercitano una certa influenza. Ciò che basta agli egiziani e ai sauditi per sostenere chiunque li combatta. Eppure, in queste ore milizie vicine ai Fratelli hanno preso il porto di Bengasi, dove dovrebbe riunirsi l’eligenda Camera dei deputati, che Heftar immagina di porre sotto il controllo (“protezione”) dei suoi pretoriani.
Ancora una volta, nella peggio concepita fra le nostre non brillanti proiezioni di forza nel mondo, rischiamo di restare vittime di un eccesso di cinismo. O di fiducia nella nostra propaganda. Il fatto più grave, per noi italiani, è che non tutti sembriamo esserne consapevoli. Coloro che lo sono non dispongono, a quanto pare, di un’alternativa. Non ci resta che sperare nei libici. Mai come questa volta saremo loro grati se sapranno smentirci. Per fare davvero quella Libia che prima abbiamo inventato, poi abbandonato e infine contribuito a disfare. Sempre sulla loro pelle.
Lucio Caracciolo