Enrica Brocardo, Vanity Fair 25/6/2014, 25 giugno 2014
NON SIAMO SOLI
[Intervista a Vasco Rossi] –
Come dice Vasco Rossi «sembra che uno le cose se le studi e, invece, capitano». E così capita che questa intervista per parlare del suo tour Live Kom 014 si svolga on the road, che fa molto rock’n’roll. Un viaggio in auto da Castellaneta Marina, in provincia di Taranto, dove ha trascorso un mese a prepararsi, verso Roma per il concerto di debutto del 25 giugno.
Sette concerti, tre nella capitale e quattro (un record) a Milano, 400 mila spettatori, a distanza di 24 anni dalla sua prima volta in uno stadio: San Siro, 10 luglio 1990, e poi il Flaminio a Roma, quattro giorni dopo.
All’epoca, una mezza follia.
«A quei tempi, gli stadi li facevano solo gli stranieri, noi italiani suonavamo nelle grandi discoteche o alle feste dell’Unità. Alla fine degli anni Ottanta ricordo che feci 15 mila persone a Reggio Emilia. Pensavo di aver raggiunto il massimo».
E quindi come arrivò l’idea?
«Venne a Enrico Rovelli che allora era il mio manager, anzi all’epoca si diceva ancora “impresario”. Aveva visto giusto: settantacinquemila persone a Milano, quarantacinquemila a Roma. Madonna il giorno dopo ne fece diecimila di meno e un giornale titolò: “Vasco ha ucciso Madonna”. E poi ci fu il manager dei Rolling Stones che mi chiese di fare da supporter al loro concerto per vendere qualche biglietto in più. Se me l’avessero chiesto prima, sarei stato felice di farlo, ma a quel punto dissi di no. Scrissero “Vasco si nega agli Stones”: altra notizia e altra cosa che capita una volta nella vita».
Lo ammetta, rifiutò apposta per fare un po’ di clamore.
«Ma neanche per sogno. È sempre così con le cose che faccio: dopo sembrano pensate, ma non è vero. Fu una grande soddisfazione, proprio perché nessuno di noi se l’aspettava».
Da allora di concerti negli stadi ne ha fatti parecchi, con questo tour saranno ventuno volte a San Siro, sedici a Roma. Come ci si sente lassù?
«È una sensazione pazzesca. Sei così carico di adrenalina che potresti volare. Per ogni canzone torno con la mente al momento in cui l’ho scritta e riprovo le stesse emozioni. Ecco perché non voglio il testo scritto davanti da qualche parte. A volte, però, capita che mi distraggo. Non so se il pubblico se ne accorge, ma io sì, e mi incazzo con me stesso. Però ho anche imparato a perdonarmi subito, perché altrimenti peggiori la situazione. Un insegnamento che vale sempre nella vita: perdonati subito e vai avanti, sennò ti rovini anche il resto».
Tanto è sopravvissuto che a 62 anni compiuti, e a un mese dalla nascita del primo nipotino – Romeo, figlio di Davide –, torna sul palco per questa maratona da Guinness. L’ultima volta che Vanity Fair gli aveva dedicato una copertina, tre anni fa, era ancora in convalescenza. Aveva rischiato di morire per un’infezione, due anni tra malattia e recupero prima del ritorno sul palco, la scorsa estate. In mezzo il matrimonio con Laura Schmidt, due anni fa. «L’ho fatto per metterla tranquilla, per motivi burocratici, perché bisogna far così. La fede non la porto, ma solo perché ho il terrore degli anelli».
L’anellofobia?
«È vero. Colpa di un racconto che mi fece mio padre quando ero piccolo. Mi disse che un tizio si era strappato un dito saltando giù da un camion perché l’anello era rimasto impigliato da qualche parte. Ma, comunque, la fede la porto sempre con me in una borsina, è il mio portafortuna».
Il matrimonio è stato celebrato il 7/7. Ancora una volta ha scelto il suo numero scaramantico.
«È anche il giorno in cui è nata mia moglie (il 7 settembre 1969, ndr). Mentre il 2 febbraio 1987 è il giorno in cui la Laura e io abbiamo cominciato a convivere. Se lo scrive mi fa un favore “familiare”».
In che senso?
«È che sbagliano sempre la data (in effetti anche su Wikipedia c’è scritto 1988, ndr) e siccome lei è della Vergine mi fa due palle così. Laura è la mia punizione divina, mi mette in pari con l’Universo».
Scherzando ha detto che per i sette concerti sua moglie le ha preparato sette valigie. Che cosa non può mancare nel suo bagaglio?
«Le serie Tv che mi piacciono, per esempio i Griffin, Big Bang Theory. Le guardo alla sera prima di dormire. Ho sempre avuto problemi ad addormentarmi e a svegliarmi. Non ho mai capito perché bisogna andare a letto e poi alzarsi, e poi a letto di nuovo e così via. Io vorrei dormire sempre o star sveglio di continuo».
Che cos’altro?
«I miei libri. Alla sera leggo romanzi. Adesso ho scoperto i libri di Baricco e me li sto leggendo tutti. Alla mattina, invece, mi dedico alla filosofia».
Appena sveglio?
«No. Prima faccio colazione, poi viene l’esercizio fisico. Lo faccio perché devo essere in forma per i concerti, sennò non me ne fregherebbe niente. Quindi, in tarda mattinata o primo pomeriggio leggo. Mi serve a tenere in allenamento la mente, meglio che fare le parole crociate. E poi, ho capito una cosa: i libri sono più sinceri delle persone».
Cioè?
«È capitato che alcuni amici abbiano fatto gesti estremi. Mi ha colpito che un’ora prima eravamo insieme, si parlava, eppure neanche un cenno ai loro problemi. Del resto, lo faccio anch’io, quando sto male non lo dico a nessuno. Dico la verità solo nelle mie canzoni, ci metto dentro cose che non confesserei a nessuno, debolezze, fatti di cui mi vergogno. È questo il bello delle canzoni: quando senti qualcuno cantare di quella sensazione lì che non hai il coraggio di esprimere, capisci che non sei l’unico e tutto diventa più sopportabile».
È successo anche a lei ascoltando le canzoni di qualcun altro?
«Con De André, soprattutto. Che cantava di quelli come noi che non andavano proprio bene. La musica è una grandissima forma di consolazione. Me ne sono reso conto proprio leggendo un libro di filosofia. Non è che abbia capito proprio tutto quello che c’era scritto, però ho capito che se uno sta male, non puoi fare nulla di concreto per aiutarlo. Non puoi cancellare il dolore, ma puoi dire le parole giuste al momento giusto. È un quasi niente che, però, fa la differenza. Lo stesso per le canzoni: non cambiano il mondo, ma ti cambiano l’umore di una giornata».
Per Dannate nuvole ha detto di essersi ispirato a Così parlò Zarathustra di Nietzsche.
«Ormai dico un sacco di stronzate, ma prenderei per il collo quel qualcuno che ha scritto che è una canzone pessimistica, triste. Il senso è che tutto cambia, finisce e ricomincia. Si nasce, si cresce e si muore ed è giusto così, perché bisogna far posto a qualcun altro. E anche se non ci sono verità assolute, si va avanti lo stesso. Per me c’è un certo eroismo, altro che tristezza».
Dopo la sessione filosofica, come continuano le sue giornate?
«Una volta allenati il fisico e la mente, di solito vado in studio, perché un bar dove posso andare non c’è. Se esco devo mettere in conto che tutti mi conoscono e che tutti mi salutano».
Per questo le piace starsene a Los Angeles?
«Ci vado almeno un mese o due all’anno per fare vacanza da me stesso. Quando sei famoso la sensazione è che tutti ti guardino anche quando non è vero. Oltretutto io sono un timido e la timidezza è una forma di egocentrismo notevole, per cui quando mi trovo in mezzo alla gente mi sento sempre osservato e provo un po’ di imbarazzo. A Los Angeles torno quello che sono, uno cui piace tirar sera senza troppi problemi».
Cosa fa quando è là ?
«Vado nei centri commerciali e mi compro un sacco di roba, che poi torno in Italia e mi dicono: “Ma guarda che c’è anche qua al supermercato sotto casa”. Solo che io, non frequentandolo, non lo so. E poi, là si respira il rock nell’aria e c’è sempre una bella luce, c’è il sole. Per me che sono meteoropatico, basta quello per far evaporare la metà dei miei problemi. E il resto si risolve».
Più di 3 milioni e 800 mila fan su Facebook e oltre 518 mila su Twitter. Lo sa che lei ha i numeri per fondare un movimento, il partito del Komandante?
«Ah, per l’amor di Dio».
Proviamo a mettere giù il programma.
«In Italia bisognerebbe cambiare praticamente tutto. Intanto la burocrazia: farraginosa, costosa e inefficiente».
Matteo Renzi ci sta già lavorando su.
«Si muove bene, sa comunicare, ha portato in politica una generazione di giovani. Sono contento che stia cercando di dare una sterzata, anche se ho il dubbio che siamo al punto in cui la macchina va fuori strada comunque».
Altre cose da cambiare?
«I processi sono troppo lenti. Un Paese dove la giustizia non funziona è nelle mani della malavita, perché se non posso far valere le mie ragioni in tribunale entro un tempo ragionevole, significa che alla fine hanno ragione solo i farabutti. Ce ne sarebbero così tante di cose da cambiare. Ma lo sa, secondo me, qual è il male vero? La pubblicità: distrugge i valori veri e ne crea di falsi. Era di questo che parlavo in Bollicine. Quella canzone fu completamente fraintesa. Dicevano che era un inno alla cocaina, in realtà era una presa in giro della pubblicità con tutte le sue idiozie, la famiglia del mulino bianco, le donne con i corpi perfetti».
Eppure lei ha venduto i diritti delle sue canzoni per alcuni spot.
«Quando Fiat mi chiese di usare un mio brano, pensai: il più importante marchio italiano si rivolge a me? Era come un riconoscimento: allora Vasco Rossi non è un corruttore di coscienze giovanili, non è solo uno sconvolto. Ma poi ho detto basta. Mai più».
Torniamo alla politica?
«Sa che c’è? Che la politica o la fai o stai zitto, perché è lo stesso che discutere di calcio davanti alla Tv: non serve a niente, visto che l’allenatore non siamo né io né lei. E poi meglio cambiar discorso sennò finisco nei guai. Già l’estrema sinistra mi odia».
Perché?
«Perché non ho mai cantato “Bandiera rossa la trionferà”. Ma io non sono un militante, sono un artista libero e indipendente. Quando ho partecipato al concerto del 1° maggio nel 2009, venni a sapere che stavano organizzando una contestazione contro di me, contro Vasco venduto al potere, stronzate del genere. È finita che non li ha sentiti nessuno, perché erano solo quattro deficienti. Il genere che su internet, siccome c’è l’anonimato, crede di poter scrivere quello che gli pare. Se uno mi incontra non è che mi dice: “Mi fai schifo, sei una merda, muori”, però lo scrive».
Succede spesso?
«Fino a due o tre anni fa non mi ero mica accorto che sotto i video di YouTube c’erano i commenti. Un giorno, leggo: “Spero che ti venga un ictus vecchio drogato di merda”. Non c’ho dormito una notte. Poi mi sono detto: “Vecchio, be’, non posso certo dire di essere giovane. Drogato lo ero vent’anni fa, se lo ero, perché sono sempre stato un tossico indipendente, nel senso che l’eroina non l’ho mai toccata. Diciamo che ho fatto le mie esperienze, non me ne vanto, ma neanche me ne vergogno. Quanto all’ictus, anch’io spero che mi venga”».
Per quello ha rallentato con post e clippini? Per evitare gli insulti?
«No. È che non mi serve più. Durante la malattia stavo chiuso in una stanza tutto il giorno, o all’ospedale: avevo bisogno di passare il tempo. Facebook è come stare al bar, puoi salutare gli amici, dire quello che vuoi».
Ha detto che la sofferenza va accettata. Ma può anche tornare utile?
«Se non muori ti serve eccome. Ti fa diventare più forte. Io faccio sempre leva sulle mie disavventure o, come mi piace dire da un po’ di tempo, sui miei naufragi. Il dolore lo puoi usare per toglierti un sacco di menate, cose che prima consideravo problemi enormi mi sono reso conto che erano stupidaggini. Poi, quando sono uscito di casa, e ho visto che erano tutti felici di vedermi, ero felice di vederli felici. Tutta quella contentezza mi ha fatto bene, considerato che ogni mattina appena apro gli occhi ho un attacco di panico prima di consolarmi al pensiero che la realtà è meglio di quello che stavo sognando».
Incubi?
«I miei sogni sono così faticosi e fastidiosi che mi sveglio. Credo che dipenda dal fatto che devo sempre mettermi d’accordo con me stesso. Il problema è che non ci riuscirò mai. È questo il problema».