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 2014  giugno 25 Mercoledì calendario

VI SEMBRA CATTIVO

[Intervista a Marco D’Amore] –

Marco D’Amore ha solo 33 anni e una vita che sembra particolarmente piena di «prima» e «invece». A dire il vero, c’è anche un «piuttosto» di quelli pesanti, ma questo lo scoprirete alla fine dell’intervista.

Invece di studiare matematica, all’esame di maturità impressionò la commissione recitando Rosso Malpelo di Giovanni Verga.
Prima di entrare all’Accademia d’arte drammatica Paolo Grassi a Milano, aveva quasi deciso che da grande avrebbe fatto il maestro di scuola elementare.
Invece di lavorare a teatro con Toni Servillo, sarebbe potuto finire a suonare il flauto traverso e il clarinetto in qualche orchestra sinfonica.
Prima di incontrare la fidanzata Daniela non aveva mai avuto una ragazza (fissa).
Invece di festeggiare i compleanni con il fratello Giuliano, ha girato l’Italia e il mondo in tournée (se pensate che gli abbia fatto piacere, sbagliate).
Prima di diventare Ciro l’Immortale aveva i capelli lunghi e ricci, la barba e una ventina di chili di più addosso.

Insomma, Marco D’Amore era quasi un’altra persona rispetto al giovane camorrista, calvo e affilato, che ha interpretato in Gomorra - La serie su Sky, telefilm ispirato al libro di Roberto Saviano, il più visto nella storia della pay tv (italiana), nonché, probabilmente, anche il più venduto all’estero (una sessantina di Paesi).
La versione che mi siede davanti, invece, è soltanto leggermente ammorbidita nei tratti del viso rispetto a quella dello schermo. «Ho ripreso qualche chilo», dice.

Vedo che porta ancora l’orecchino. Anche quello fa parte del ruolo?
«No, questo è il mio unico vezzo. L’ho fatto in una tabaccheria dove facevano anche i buchi alle orecchie quando avevo 10 anni. Tutti i ragazzi dalle mie parti, a Caserta, lo portavano, ma i miei non ne volevano sapere. E così andai da solo e me lo feci fare. Immagini il casino quando se ne sono accorti. Ma riuscire a spuntarla fu una grande soddisfazione».
Parliamo un po’ della sua famiglia.
«Mio padre fa l’infermiere, mia madre è professoressa di liceo. Entrambi hanno una passione smisurata per teatro, cinema, musica, e hanno sempre cantato e recitato a livello amatoriale. L’unico attore della famiglia era mio nonno, il padre di mia mamma, Ciro Capezzone. Lavorava al cinema ma, per garantire una stabilità economica ai suoi, non aveva mai smesso di fare anche l’impiegato della Sip (l’antenata della Telecom, ndr). È morto quando avevo 10 anni, però me lo ricordo benissimo, a teatro, sul set».
È nata così la sua passione?
«Premesso che non credo alle illuminazioni, in realtà è cominciato tutto in seconda elementare. Da piccolo ero ingestibile. Avevo preso a calci una maestra, un’altra mi aveva definito “caratteriale”, che all’epoca stava per mezzo matto. Mia madre per farmi stare buono minacciava da sempre di mandarmi in un collegio di suore. Quell’anno lo fece davvero. Fu così che incontrai un insegnante meraviglioso: organizzava a sue spese concerti, spettacoli. Scoprì in me questo desiderio di palcoscenico».
Ne è uscito pacato?
«Tranquillo non lo ero e non lo sono. Diciamo che un po’ alla volta ho imparato le regole della convivenza civile».
A Caserta, dov’è cresciuto, com’era l’ambiente?
«Negli anni Novanta, nel Casertano, c’era una delinquenza spicciola che faceva paura. Di cose “brutte” ne ho viste parecchie: botte, raid punitivi nei bar, rapine. A un mio amico rubarono tutto, compresi i vestiti, e lo buttarono in un cassonetto dell’immondizia. Ricordo una lite per una ragazza: in due la prendevano a giornalate in faccia. Quello che mi colpì è che lei non chiedeva aiuto. Anzi, diceva alla gente intorno di farsi gli affari loro. Una volta, fuori dal liceo, mi sono preso uno schiaffo da un noto delinquente della zona: una bomba in faccia perché avevo cercato di chiedere aiuto per una persona in difficoltà, invece di farmi i cazzi miei».
Tornando alla famiglia: fratelli, sorelle?
«Una sorella più grande di otto anni, Valeria, che sta a Caserta e ha due figlie, e un fratello più piccolo di un anno e mezzo, Giuliano, che vive a Firenze e lavora per una multinazionale. Con lui ho un rapporto simbiotico: condividiamo idee, progetti. Adesso, per esempio, stiamo per imbarcarci in un’avventura che ci porterà sul lastrico: vogliamo produrre un film sulla vicenda dell’Eternit di Casale Monferrato. Tutti a dire: “Bellissima storia”. Ma nessuno che ci metta i soldi. Così, abbiamo deciso di farlo noi».
Vuol dire che con Gomorra ha guadagnato parecchio.
«Se le dicessi quanto ho preso mi farebbe l’elemosina. Non ho una lira».
Buffo che uno giovane come lei usi ancora questa espressione.
«Io le lire me le ricordo benissimo. Mia nonna mi dava la paghetta: 3mila lire alla settimana. A volte le chiedevo un anticipo. E quando ero proprio al verde, rubacchiavo a casa».
Pentito di non aver chiesto più soldi?
«No. Ma se penso ai cachet di certi attori (fa il gesto delle virgolette con le dita, ndr) che per me sono dilettanti, lo trovo ingiusto. Come non riesco ad accettare che attori del livello di Toni Servillo o Giancarlo Giannini siano accomunati a gente che ha un percorso ambiguo».
Ambiguo?
«Nessuna formazione accademica, né esperienza alle spalle. Persone venute alla ribalta per qualche reality, trasmissione tv. Non è accettabile che uno faccia il pirla in televisione e guadagni 500mila euro mentre io lavoro un anno su Gomorra e se va bene mi pago una settimana di vacanza. Ho sacrificato la mia vita per fare questo mestiere. Ho fatto tante rinunce».
Di che tipo?
«Quando a 18 anni me ne sono andato di casa per lavorare in teatro, la mia famiglia era a pezzi. Non come oggi, con i genitori che spingono i figli a fare gli attori. Per loro si trattava di una follia».
E la sua fidanzata? Anche a lei sono toccate rinunce?
«Quando ci siamo messi insieme io stavo per partire, una tournée che durava parecchi mesi. Le dissi: “Ti chiamerò tutti i giorni”. Lei non ci credeva. E, invece, così ho fatto. Da allora – sono passati circa quattro anni – non ci siamo mai lasciati. È la prima volta nella mia vita che faccio progetti: il futuro, i figli. Lei è laureata in Giurisprudenza, si occupa di risorse umane. È una fortuna che abbia un impiego, ma questo vuol anche dire che molto spesso non può seguirmi quando sono in giro per lavoro».
Come vi siete conosciuti?
«Era una mia compagna di liceo. Ai tempi della scuola ci eravamo scambiati se va bene tre parole, però mi era sempre piaciuta. Si chiama Daniela Maiorana. Ci tengo a dirle il cognome perché è una pronipote del fisico Ettore Majorana (La «j», spiega, è stata modificata da una trascrizione all’altra nel corso degli anni, ndr)».
Come lo vivete l’attacco delle fan di Ciro?
«Alcune sono matte proprio. Tanto che, una sera, sono stato sul punto di reagire male. Eravamo in una pizzeria e questo gruppo di ragazze non la smetteva più con: “Ah, Ciro, ah Ciro, fai la voce cattiva”, cose così. Mi ha dato fastidio perché non mostravano nessun rispetto per la mia fidanzata, che stava al tavolo con me. Per loro era come se non ci fosse».
Se la seconda stagione di Gomorra andrà bene come la prima, c’è il «rischio» che si vada avanti.
«Magari Ciro muore nel primo episodio. Chi lo sa? Una cosa però me la sento: scommettiamo che d’ora in avanti mi proporranno solo parti da fetente?».
E lei?
«Piuttosto smetto».