Lanfranco Caminiti, Il Garantista 25/6/2014, 25 giugno 2014
GIUSTIZIATO IL GIUSTIZIERE DI SADDAM
«Fermi, fermi! I soli linciaggi ammessi qui sono quelli a termine di legge!». Così urlava Paul Newman, nella parte di Roy Bean, ne L’uomo dai sette capestri, a chi voleva sbrigativamente impiccare alcuni imputati, a ovest del fiume Pecos dove lui si era autoproclamato giudice di pace. Linciarli sì, ma bisognava farlo in punta di diritto. Questa era la nuova frontiera, dove doveva regnare la Legge. Peccato che lui stesso fosse un fuorilegge.
Diventato padrone di un saloon dopo aver ucciso per vendetta i suoi occupanti, che lo avevano ingannato, picchiato e derubato, decide di amministrare la legge in quella terra di nessuno. Lui e i suoi sceriffi la fanno da padroni. Poi, un nuovo sindaco caccia Bean con l’appoggio della cittadinanza. Il mondo sta cambiando, deve cambiare: c’è il petrolio, e il consumismo, basta con la frontiera e le sue regole. Ora c’è il business. Dopo vent’anni il vecchio giudice torna nel paesino per vendicarsi del vecchio sindaco. Nello scontro il giudice muore assieme al sindaco mentre tutta la città brucia.
C’è una morale in tutto questo, certo, anche se non saprei dire bene quale. Il film, l’aveva girato John Huston, uno dei più fervidi democratici di Hollywood, basandosi sulla sceneggiatura di John Milius, uno dei più convinti conservatori di Hollywood. E forse la morale sta proprio qui: ci troviamo davvero in quella terra di nessuno dell’interpretazione delle vicende della storia (il giudice Roy Bean è davvero esistito, anche se il film romanza un bel po’), che non ha uno Spirito a guidarla né un fine a sorreggerla, sotto un profilo etico del Bene e del Male.
UNA STORIA DI VENDETTE
Non so se Rauf Rashid Abd al-Rahman, il giudice del capestro di Saddam Hussein, avesse mai visto il film con Paul Newman. Se sì, deve averci pensato. Due volte. Il giorno che impiccarono Saddam, dopo la sua sentenza, e il giorno che i miliziani dell’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, lo hanno sequestrato. Per vendicarsi. Perché questa è una storia di vendette.
Rauf Rashid Abd al-Rahman era un magistrato iracheno di etnia curda, una delle più perseguitate da Saddam quando era al potere, originario di Halabja, città attaccata nel 1988 coi gas velenosi dall’esercito di regime. Allora morirono cinquemila persone, tra cui alcuni parenti del giudice.
Lui stesso, negli anni ottanta, era stato più volte arrestato e torturato. Nel 2006 diventa presidente ad interim del tribunale speciale iracheno per i crimini del regime, dopo la seconda guerra americana e la caduta di Saddam, sostituendo Rizgar Mohammed aveva rassegnato le dimissioni dopo che la stampa irachena lo aveva accusato d’essere troppo conciliante con la difesa. Abd al-Rahman no, non parve per nulla conciliante. Lui era il braccio violento della legge. O la giustizia divina in terra. O l’occhio per occhio della vendetta. In toga nera e aria severa, un’aria dura e elegante, non lasciò scampo a un Saddam che appariva imbambolato e goffo in un vestito troppo largo. Fu lui a emanare il verdetto di impiccagione per l’ex dittatore. Si poteva altrimenti?
FEROCIA DA FILM
Fu un’esecuzione dal valore simbolico e di particolare ferocia quella di Saddam Hussein – chi ha dimenticato quelle orribili immagini girate con un telefonino con i boia che stringono il cappio al collo del dittatore? –, come un ammonimento biblico. Si celebrava un fragile successo «la guerra è finita», dichiarava Bush dall’incrociatore, come fosse il generale MacArthur dal Pacifico dopo aver battuto i giapponesi – dell’operazione militare americana “Iraqi Freedom”. L’occidente era armato di tecnologia ma guidato direttamente dalle parole di Dio nella Bibbia.
E adesso siamo sull’orlo di un nuovo “Califfato”. C’è da avanzare qualche timida domanda su come quella maledetta guerra sia stata fatta. L’avanzata degli jihadisti dell’Isis – sunniti come Saddam, ai tempi della dittatura erano l’etnia dominante ai danni di curdi e sciiti –, prosegue senza soste, nel nord dell’Iraq nelle province di Dilaya, Kirkuk, Ninive e Salahaddin. Ormai il fronte estremista sunnita controlla gran parte della frontiera occidentale con la Siria e la Giordania e hanno conquistato l’aeroporto di Tal Afar, dopo aver preso le città di Rawa e Ana. Si parla di centinaia di soldati iracheni impiccati o decapitati con esecuzioni sommarie.
Il sequestro del giudice Abd al-Rahman e la sua molto probabile esecuzione – ne danno notizia il sito Al-mesyroon.com ma anche il Daily Mirror non la smentisce – fanno parte di questa vendetta.
UN INUTILE TRAVESTIMENTO
Nel dicembre 2006, dopo il processo, la sentenza e l’impiccagione di Saddam, Abd al-Rahman aveva portato la famiglia in Gran Bretagna e tre mesi dopo aveva chiesto asilo politico, dichiarando di temere per la propria vita. In seguito però aveva cancellato la richiesta. Era rientrato in Iraq, dov’erano le sue radici e la sua gente. E dove ha ritrovato i miliziani jihadisti. Secondo il parlamentare giordano Khalil Attieh, il magistrato prima di essere catturato dai fondamentalisti aveva provato inutilmente a lasciare Baghdad – pare travestito da ballerino – temendo la vendetta.
Nel 2008, aveva criticato duramente il modo in cui era avvenuta l’esecuzione. Secondo lui non sarebbe dovuta avvenire in maniera così barbara. E come dargli torto? Proprio a lui?
Chissà, se avesse potuto e avesse visto il film del giudice Bean, magari mentre i boia riprendevano la scena con il telefonino avrebbe gridato: «Fermi, fermi! I soli linciaggi ammessi qui sono quelli a termine di legge!»