Leonard Berberi, Corriere della Sera 25/6/2014, 25 giugno 2014
GLI ITALIANI SONO ANCORA CREATIVI
Fuori dai primi dieci. Sorpassati, di qualche decimale, dalla Svezia. E sempre più lontani da Stati Uniti, Giappone e Cina. Il problema dell’Italia con i brevetti. Secondo l’Epo, l’istituzione europea che si occupa di proprietà industriale, il nostro Paese è ora all’undicesimo posto: nel 2013, su un totale di 265.690 domande di brevetti europei, soltanto 4.662 (cioè l’1,75 per cento del totale) era «made in Italy». Il picco, se si prende in esame l’ultimo decennio, è stato nel 2004 quando «pesava» per il 2,7 per cento. Numeri irrisori, a leggere il confronto con gli altri. Poco meno di un quarto delle domande presentate l’anno passato è arrivato dagli Usa, un quinto dal Giappone, il 12 per cento dalla Germania. Subito dopo Cina, Corea del Sud, Francia, Svizzera, Olanda, Gran Bretagna e Svezia. Se poi si va a vedere l’«indice di innovazione» stilato dalla Commissione europea l’Italia è inserita nell’elenco degli Stati che procedono a velocità «moderata», al di sotto della media Ue e distante dai paesi nordici.
Che succede al Paese di Leonardo e Volta, di Galileo e Fermi? «Troppe leggi e burocrazia frenano la creatività», sostiene Guido del Re, alla guida di uno studio legale che si occupa di proprietà industriale. Creatività che dovrebbe anche essere ben retribuita: un tema non scontato nell’economia digitale se è vero, come scrive il Financial Times, che molti di quelli che lavorano nel settore non ricevono il giusto compenso. In alcuni casi addirittura non vengono pagati.
«Siamo bravissimi nella ricerca applicata, cioè in tutto quello che è difficilmente misurabile come l’abbigliamento o l’agroalimentare», spiega Francesco Morace, sociologo, presidente di Future Concept Lab e autore — con Barbara Santoro del saggio «Italian Factor» su come moltiplicare il valore del Paese. Per questo, sostiene Morace, sui brevetti siamo indietro. «Come fai a dare un valore, per esempio, a Eataly? Eppure è un’eccellenza italiana nel mondo». Secondo l’esperto, poi, siamo anche «poco bravi a presentare i nostri prodotti: gli americani sono abilissimi nel far vendere lioni di aggeggi anche se la loro qualità è mediobassa». La classifica, va detto, non tiene conto delle invenzioni — alcune anche molto importanti — degli italiani all’estero. Quei «cervelli in fuga» continua Francesco Morace, «dimostrano ancora una volta la creatività, la capacità di innovazione e di risolvere i problemi degli italiani». Una creatività «per nulla indebolita dalla crisi, anzi. Anche se proprio la crisi ha fatto venire meno i finanziamenti in ricerca e sviluppo. E questo si trasforma anche in poca capacità di difendere le specificità italiane».
«Partiamo da un dato di fatto: in Italia non una sensibilità all’idea di brevetto», aggiunge Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia. Che invita a guardare i dati europei più nel dettaglio. «A livello pro capite Italia si brevetta molto. Ma questo perché i nostri ricercatori sono pochi». Ed è, quest’ultima, caratteristica negativa. Non solo. «Bisognerebbe andare anche a vedere questi documenti che fine anno: quanti ne vengono venduti? Quanto rendono?». In generale, però, l’Italia non brilla. E il difetto — secondo Cingolani — è «genetico»: «La nostra formazione è poco scientifico-tecnica. Il modello culturale del nostro Paese «non ci permette di avere un rapporto confidenziale con la tecnologia». Che è anche, in questo momento, il settore più «quantificabile». E quindi un biglietto da visita nazionale.
«Il bilancio italiano dei brevetti sconta un deficit strutturale: il nostro sistema industriale è fatto di piccole e medie imprese. Per depositarne uno serve un vero e proprio ufficio che ovviamente le Pmi non possono permettersi», analizza Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano. Da qui sono uscite 323 invenzioni e 26 società spin-off. «La spesa in ricerca e sviluppo è bassa. La Svezia ci ha sorpassati non a caso: da anni ha avviato una politica di forti investimenti nell’innovazione». Il dato del nostro Paese, però, secondo il rettore si inserisce in un quadro globale «dove gli asiatici giganteggiano, gli americani resistono e gli europei arretrano».
Come se ne esce? «Intanto serve un piano nazionale degli investimenti», dice il rettore del Politecnico. «Questo Paese deve decidere dove e quanto vuole puntare». «Bisogna poi aumentare il numero dei laureati, dei ricercatori e dei laboratori», suggerisce Cingolani. «Senza le persone e le attrezzature sarà difficile decollare».