Paolo Valentino, Corriere della Sera 25/6/2014, 25 giugno 2014
BUSH, OBAMA E IL CAOS IN IRAQ: DI CHI LE COLPE
Quasi 6 americani su 10 bocciano la gestione di politica estera di Barack Obama. In particolare il 52% di loro disapprova il modo in cui il presidente sta affrontando la crisi irachena. E se poco più della metà si dice d’accordo con la decisione della Casa Bianca di inviare 300 consiglieri militari a Bagdad, il nuovo sondaggio New York Times/Cbs News rivela una crescente mancanza di fiducia in Obama e nella sua leadership da parte dell’opinione pubblica, angosciata dalla prospettiva di un altro lungo e costoso coinvolgimento degli Stati Uniti in Medio Oriente
C’è una paradossale contraddizione, nella caduta delle illusioni e delle aspettative che accompagnarono l’elezione e la rielezione di Barack Obama. Sul fondo, infatti, gli americani condividono con gli interessi la riluttanza del presidente a impegnare la più potente macchina militare del mondo in nuove avventure all’estero. Ma allo stesso tempo, desiderano che qualcuno ricordi loro sempre che l’America è ancora la prima Superpotenza del pianeta.
E’ in questo varco, nel quale confluiscono realtà strategiche, velleità, sensibilità patriottica, conti con la Storia e vanità personali, che uno strano revival ha trovato fertile terreno, dilagando nelle ultime settimane sui media e nella conversazione politica globale, non soltanto negli Stati Uniti. Alimentato dalla crisi in Iraq, dove l’insurrezione islamica minaccia l’esistenza del regime di Al Maliki, ormai privo del back up americano, il ritorno di fiamma della «classe del 2003», i leader politici e gli intellettuali che decisero e sostennero l’avventura irachena, è l’esotico corollario che accompagna il rovello vero e drammatico su cosa fare per impedire l’avanzata dell’estremismo sunnita.
Come riportati in vita da un elettroshock, i neocon del Project for the New American Century sono tornati, disinvolti nel rovesciare sull’amministrazione Obama tutta la responsabilità dell’attuale disastro iracheno. «Raramente un presidente si è sbagliato su così tante cose e a spese di così tanti», ha scritto l’ex vicepresidente Dick Cheney, principale architetto della guerra, suggerendo che Obama avrebbe «abbandonato» l’Iraq di fronte alla minaccia di al Qaeda. Secondo Paul Bremer, il primo plenipotenziario americano subito dopo l’invasione, l’uomo che sciogliendo le forze di sicurezza irachene gettò le premesse dell’anarchia, l’America ha perduto ogni influenza politica con la decisione di ritirarsi nel 2011.
Ma forse la voce più autorevole in questo sforzo di amnesia collettiva è stata quella dell’ex premier britannico Tony Blair, che al pari di Cheney non ha mai concesso uno spiraglio al dubbio: «Dobbiamo liberarci dalla nozione che siamo stati noi la causa di tutto. Non è così». In verità, rispondendo alle critiche rivoltegli dal Financial Times che ha definito assurdo il suo rifiuto ad assumersi ogni responsabilità, Blair ha corretto il tiro, ammettendo che si, l’Iraq del 2014 «porta parzialmente l’imprint della rimozione di Saddam Hussein». Ma ha anche sottolineato due punti importanti: primo che è stata la decisione americana di non intervenire in Siria a favorire la riorganizzazione della guerriglia jihadista, secondo non è affatto detto che, alla luce delle primavere arabe, senza intervento non ci sarebbe stata rivoluzione in Iraq, dove «Saddam avrebbe probabilmente reagito alla maniera di Bashar Assad». Ma il nodo centrale resta il 2003: fu l’invasione dell’Iraq l’origine di tutto? Abbiamo chiesto a uno dei protagonisti di allora, l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, che oppose un no argomentato e mai ostile all’amministrazione Bush, in questo differenziandosi sia da Gerhard Schröder che da Jacques Chirac. Fu lui, nel febbraio 2003 alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, a guardare in faccia un esterrefatto Donald Rumsfeld, il capo del Pentagono, seduto a pochi metri, pronunciando il celebre «I am not convinced».
«Non c’è dubbio — dice Fischer al telefono da Berlino — che il peccato originale dell’attuale caos nel Grande Medio Oriente sia stata l’invasione dell’Iraq. Scambiando i loro desideri per la realtà, i neocon dimenticarono che la caduta di Saddam Hussein avrebbe creato un vuoto che nessuno di loro indicò come riempire. E fa un po’ ridere che oggi, guidati proprio da Blair e Cheney, tirino fuori dalle tombe della Storia le stesse tesi errate per criticare Barack Obama. Sono loro i principali responsabili dell’attuale disastro, perché con la riuscita destabilizzazione dell’Iraq si è creato un vuoto di potere nell’intera regione, che le primavere arabe hanno poi aggravato. Il paradosso interessante è che il vuoto da loro stessi creato non solo ha aperto la strada all’egemonia regionale dell’Iran, ma costringe l’America, sia pur con riluttanza, a riavvicinarsi a Teheran».
Eppure, Fischer non assolve Obama, il quale a suo avviso ha una parte importante di colpa, quella di «aver ordinato un ritiro troppo affrettato delle truppe da Bagdad» e di aver tenuto «un atteggiamento troppo passivo nella crisi siriana, dove ha fissato inutilmente un limite, senza poi trarne le conseguenze». In questo senso Fischer, confermando le sue simpatie per l’interventismo progressista, si dice d’accordo con Robert Kagan, lo storico conservatore che in un recente saggio su New Republic ha teorizzato che «le Superpotenze non si ritirano», suggerendo un approccio più muscolare in politica estera per gli Stati Uniti. L’articolo di Kagan ha così innervosito Obama, che il presidente lo ha invitato a colazione alla Casa Bianca per discutere con lui del ruolo dell’America nel mondo . Ma non sembra che le posizioni si siano avvicinate.