Francesco Bonami, La Stampa 24/6/2014, 24 giugno 2014
MEGLIO IL NIENTE DELL’INFELICITÀ
[Intervista a Marina Abramovic] –
Diceva il premio Nobel Samuel Beckett: «L’unico modo di parlare del niente è di parlarne come se fosse qualcosa». Lo ha preso alla lettera Marina Abramovic la regina dell’arte performativa, quella dove le persone prendono il posto delle opere d’arte. Alla Serpentine Gallery di Londra da qualche giorno ha aperto (letteralmente, visto che la mattina è lei che apre con le chiavi la galleria) la sua nuova mostra 512 Hours, il numero delle ore che l’artista rimarrà nello spazio facendo un bel niente.
Marina Abramovic ha già ottenuto un successo, riuscire a obbligare gli spettatori a lasciare in un armadietto tutti i propri effetti personali compresa quella protesi che è il cellulare. Nella galleria assieme a lei lo spettatore dovrà perdere il senso del tempo e infilarsi nel niente. Sul niente hanno lavorato tanti artisti. Dai 4 minuti e passa del musicista John Cage, dove gli spettatori ascoltavano il silenzio, fino alla scatola da scarpe vuota di Gabriel Orozco. Ma questa tradizione non è bastata a fermare un gruppo di studiosi e un artista dall’accusare Marina Abramovic di plagio se non addirittura di furto. Eppure anche sant’Agostino parlava del vuoto come del niente dotato di spazio. Nel caso delle 512 ore dell’Abramovic si potrebbe parlare di spazio dotato di niente. Un niente che sembra piacere alla gente, vista la fila interminabile che si forma ogni giorno davanti alla Serpentine per entrare.
Cosa ne pensa di quelli che l’accusano di copiare l’idea del niente?
«Che non sanno che il niente è una tradizione che si ritrova indietro nel tempo un po’ dovunque, fino all’universo vuoto tibetano».
Il futuro dell’arte è il niente?
«No, il futuro dell’arte è quello dove gli oggetti saranno sostituiti da pura energia, che è una cosa ben diversa dal niente. È il tutto».
Che differenza c’è con la famosa performance al Moma di New York «L’artista è presente», dove lei stava su una sedia tutto il giorno a guardare negli occhi senza parlare chiunque volesse sedersi sulla sedia davanti a lei?
«In quel caso c’era una struttura, e poi c’era, anche se minima, una barriera: la distanza tra le due sedie. Qui a Londra non c’è struttura, non so cosa accadrà. Arrivo ogni mattina e apro fisicamente lo spazio, e la sera, dopo 8 ore, lo chiudo. In queste 8 ore non ho idea di cosa accadrà. La gente arriva e se ne va lasciando tutto com’era. Siamo nella piena normalità, che è la cosa che mi fa più paura».
Come si prepara a queste performance?
«Lavoro con degli sciamani in Brasile che m’insegnano come proteggermi, più che altro da me stessa. Ma ho passato anche molto tempo in silenzio nella foresta amazzonica senza parlare con nessuno».
Cosa impara da queste performance?
«A New York ho imparato come proiettare negli altri un amore senza condizioni. È un’esperienza molto dolorosa».
Cosa perde durante queste performance?
«Ho perso l’autocommiserazione. La mia vita privata. Che è diversa dalla vita interiore, che invece si arricchisce giorno dopo giorno. Ho perso anche il senso di colpa».
Che tipo di dieta fa?
«Frullati di proteine. Non ho mai bevuto in vita mia, né preso droghe. L’unica tentazione è il cioccolato».
Che succede al suo ego quando fa questo tipo di lavori dove tutta l’attenzione è concentrata su di lei?
«L’ego è una grande fregatura, ci litigo tutto il tempo».
Potrebbe definire la sua arte un tipo di meditazione?
«No, mai, non dico mai che sto meditando. Caso mai cerco la perfezione. Ma come diceva John Cage: un conto è l’idea, un altro conto è cosa te ne fai di questa idea».
In cosa potrebbe consistere il fallimento di questo niente che mostra alla Serpentine?
«Se alla fine avrò perso la convinzione e la fede in quello che faccio».
Il successo invece come lo misurerà?
«Nel numero di giovani che vorranno venire e rimanere nello spazio con me a fare niente o magari qualcosa, ma senza sapere cosa».
Le interessa il denaro?
«Il denaro non m’interessa. Vorrei però 31 milioni dollari per poter costruire nella valle del fiume Hudson il mio istituto sulla performance dove la gente verrà a imparare come diventare consapevoli di se stessi e del mondo».
Si potrebbe paragonare l’esperienza che la gente fa alla Serpentine all’osservazione di un quadro tutto bianco di Robert Ryman o di un taglio di Fontana?
«Questo lo lascio dire a lei».
Che differenza c’è fra la performance e il teatro?
«Come dice il mio amico Klaus Biesenbach (curatore del Moma PS1 a New York), nel teatro un coltello non è un coltello e il sangue è ketchup».
In ebraico arcaico c’è una parola, «tzimtzum», riferita a quando Dio si ritrae dalla sua creazione per lasciare che il mondo scopra il libero arbitrio. Alla Serpentine a modo suo sta facendo un po’ di «tzimtzum»?
«Non conoscevo questo termine, ma credo che in un certo senso sia adatto a quello che faccio o meglio non faccio. Lascio che lo spettatore nel niente riscopra lo spazio della sua libertà».
Un’ultima definizione per il niente.
«Il niente è più divertente dell’infelicità».
Francesco Bonami