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 2014  giugno 24 Martedì calendario

MANNARINO “IO, LE MIE CANZONI E QUELLA RISSA”

[Intervista] –

ROMA
M’hanno preso pure le impronte digitali ». Alessandro Mannarino scuote la testa. Nelle sue canzoni, bellissime, racconta la vita degli arrabbiati, i carcerati e le guardie, i disillusi. Pochi giorni fa è diventato protagonista di uno dei suoi brani, è stato arrestato a Ostia per resistenza a pubblico ufficiale dopo una rissa. È seduto al bar a due passi dallo studio dove prova con i musicisti. È uscito il terzo album Al monte e il 3 luglio parte da Villafranca di Verona per un tour che durerà tutta l’estate.
Mannarino, che è successo quella sera a Ostia?
«Mia sorella per i 18 anni aveva organizzato una festa hawaiana al mare. Mentre siamo andati a prenotare un albergo, perché era tardi, era già successo tutto. Erano arrivati ‘sti ragazzi che volevano imbucarsi ed è scoppiata la rissa. Era già intervenuta la polizia, sembrava tutto tranquillo. Mi è dispiaciuto leggere sui giornali certe cose. Quella frase: “Lei non sa chi sono io” non l’ho mai detta, li ho mandati a fare in c… i poliziotti, questo sì».
Ha esagerato anche lei.
«Quelli che ci hanno aggredito avevano dato un cazzotto alla mia ragazza, la volevo vedere. Ma “Lei non sa chi non sono io” non lo dico, poi sapevano benissimo chi ero. Mentre parlavo con gli agenti ho sentito le urla della mia ragazza, mio fratello era a terra. Mi sono messo a correre e mi hanno afferrato. Sono finito in auto ammanettato, uno di questi teppisti mi guardava: “Mannari’ sei finito, mo’ lo vedi che fine fa la ragazza tua” (fa il segno di un coltello che taglia la gola, ndr). Perché hanno trattato me come un criminale?».
Già, perché è stato ammanettato?
«Sono scappato quando mi avevano detto di stare fermo, ma solo per vedere la mia ragazza. È una vicenda che mi ha scosso, ma ora penso al tour. Sarà la mia risposta».
Dal Bar della rabbia a Supersantos fino all’ultimo disco Al monte si è imposto con le sue poesie del
quotidiano.
«Sono cresciuto con De André. Canto la vita e la rabbia di chi vede che le cose girano al contrario. Mio nonno era partigiano, un combattente, noi ci siamo fatti togliere tutto. Da piccolo mi leggeva Trilussa e mi raccontava I Miserabili in romanesco».
In Scendi giù scrive: “Il detenuto è come un figlio da educare, purché abbassi sempre gli occhi della sfida”.
«Lo Stato è paternalista con i poveracci, mai con la classe dirigente. Il piccolo detenuto viene preso come “figlio ribelle”, non deve dire al padre: “Non ti riconosco come autorità”. Per questo canto: “…del figlio che non riconosce il padre faremo un morto che non riconosca l’omicida”».
L’ha dedicata a Stefano Cucchi.
«A lui e ai tanti Cucchi. Se penso a certe cose mi verrebbe voglia di mettere le bombe. Per carità non lo farei mai: la ribellione è quella delle idee che sono contagiose, come dice la mia canzone: “Il mondo non cambia spesso, la vera rivoluzione è cambiare te stesso”».
Lei com’è cambiato?
«Sono cresciuto nella borgata San Basilio, mia madre si raccomandava: di’ che abiti tra la Nomentana e la Tiburtina, dire “San Basilio” a Roma significava partire dal posto sbagliato. Ma non puoi vergognarti. Ho studiato al liceo classico, poi mi sono laureato in Lettere, Antropologia. La cultura mi ha aiutato a uscire dal ghetto».
Che rapporto ha con la politica?
«Sto sul cavolo a gran parte della sinistra che è elitaria e non vuole condividere. La sinistra assistenzialista radical- chic sotto sotto non ci crede che gli uomini siano tutti uguali: a quelli il coatto con la canottierina e il tatuaggio non gli piace».
Le piace Renzi?
«Il problema non è Renzi, è il sistema in cui si muove: vogliamo credere alla favoletta che può decidere qualcosa? Non mi piace il capo di un governo di sinistra che durante gli sgomberi permette che venga manganellata la gente senza reddito».
A 35 anni continua a essere duro e puro, ma il successo, i premi che impressione le fanno?
«La prima volta che sono andato dalla Dandini feci una battuta: voglio morire povero. A 28 anni soffrivo: ero laureato, non c’avevo una lira, facevo il manovale, avevo lavorato da McDonald’s. Pensavo: o mi trovo un lavoretto e smetto di cantare nei locali o canterò sotto i ponti ma lo devo accettare. La passione per la musica era troppo forte».
Vuole sempre morire povero?
«Ho la fortuna di aver viaggiato, sono stato tra i poveri delle favelas, nei peggio posti e non ho mai avuto paura. Ho un’empatia con chi è ai margini, mi sento di appartenere di più a loro che alla categoria di quelli che possono essere derubati».

Silvia Fumarola, la Repubblica 24/6/2014