Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 24/6/2014, 24 giugno 2014
POCHI FONDI ALLA CULTURA UN DESTINO DI POVERTÀ
A un certo punto, nel suo nuovo libro, Senza sapere (Laterza), Giovanni Solimine scrive che si fa fatica a credere ad alcuni dati sulla cultura in Italia. Prendete questo: «Secondo Save the Children, più di 300 mila ragazzi di età inferiore ai 18 anni, residenti nelle regioni meridionali, non hanno mai fatto sport, non sono mai andati al cinema, non hanno mai aperto un libro o acceso un computer». E questi altri: nel 2011 la quota di italiani tra i 25 e i 64 anni con almeno il diploma di scuola secondaria superiore era del 56% rispetto a una media europea del 73,4%; e solo il 15% degli italiani adulti (25-64 anni) ha raggiunto un livello di istruzione universitaria, mentre nei Paesi Ocse il dato medio è più del doppio. Il paradosso dei paradossi è che i laureati italiani, pur essendo pochi, restano disoccupati e devono trasferirsi all’estero per trovare un’attività degna delle loro aspettative (siamo in quartultima posizione nella graduatoria dell’incidenza dell’occupazione culturale). Ovviamente, se il titolo di studio non serve a trovare lavoro, i giovani che si iscrivono in università diminuiscono: nel 2013-2014 gli immatricolati sono stati quasi 68 mila in meno rispetto all’anno accademico 2002-2003. Tralasciamo l’andamento della lettura di libri e giornali, che continua a declinare persino tra i lettori cosiddetti forti. E lasciamo stare anche il fatto che il museo italiano più visitato (gli Uffizi) figura al ventunesimo posto nella classifica mondiale.
Si sarà capito che il libro di Solimine, che insegna Biblioteconomia alla Sapienza ma è un indagatore attento del nostro «mercato» culturale, è una miniera di informazioni, ma è soprattutto un grido d’allarme: «I dati ci descrivono un’Italia priva di conoscenze e di competenze, un Paese “senza sapere”. Siamo talmente ignoranti da non comprendere perfino quanto sia grave e pericoloso il nostro livello di ignoranza, e da non correre ai ripari».
In questo quadro, si può anche fingere ottimismo sul destino dell’Italia, ma intanto i costi dell’ignoranza si traducono in cifre in rosso dell’economia in un Paese il cui livello di istruzione delle élite si rivela del tutto inadeguato allo sviluppo culturale e tecnologico. È ampiamente dimostrato che il benessere individuale e collettivo dipende dal nostro grado di conoscenza e dal nostro sapere, ma se disponiamo di governanti poco istruiti, non dobbiamo meravigliarci che la spesa sulla cultura incida solo per lo 0,6% sulla spesa pubblica ed equivalga a meno dell’1% del Pil (il che ci colloca al trentesimo posto in Europa). Non sarà un caso se gli investimenti nell’istruzione superiore tra il 2008 e il 2012 sono diminuiti del 14%, proprio mentre in Germania, in Svezia e in Norvegia aumentavano di un quinto. Come potrebbero mai dei politici incolti e dunque poco lungimiranti capire l’utilità della cultura e dell’educazione? È normale che le considerino beni superflui e facoltativi, su cui concentrarsi, semmai, in tempi di vacche grasse. Per il momento, meglio incentivare le lotterie e le slot machine.