Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 24 Martedì calendario

LA PALLOTTOLA VAGANTE


[note alla fine]

COME DISSE WINSTON CHURCHILL, UN GRANDE conoscitore – nonché protagonista – della storia, «i Balcani producono più storia di quanta ne consumino». Per comprendere appieno questa regione del mondo capace di sconvolgere gli equilibri planetari e la tragicità dei destini che si incrociano nello spazio compreso tra il Sud dell’Austria e il Mar Ionio, forse devi esserci nato. I Balcani danno vita a situazioni storiche che rasentano l’assurdità, specie per l’apparente mancanza di connessioni con le grandi questioni del mondo internazionale.
Una mattina del 1° novembre 1918 un maggiore della fanteria di stanza a Marburg, nella Stiria meridionale, si svegliò con il desiderio di passare alla storia. Dichiarò ai capi dell’esercito asburgico, di cui faceva parte, che non riconosceva il nuovo confine tracciato dalla Grande guerra tra Austria e Regno degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi (Shs), individuato dal fiume Drava. Montò a cavallo e alla guida di un manipolo di soldati a lui fedeli prese gli austriaci di sorpresa: mai e poi mai questi si sarebbero aspettati che un semplice maggiore, dedito alla poesia e responsabile di una piccola guarnigione dell’entroterra, potesse effettuare un colpo di mano a conflitto terminato, annettendo città da sempre austriache a un nuovo Stato sorto per dare ai popoli slavi un’identità politica. Marburg divenne Maribor, Pettau divenne Ptuj e il maggiore Rudolf Maister generale del nuovo Regio esercito Shs. Egli è l’eroe locale a causa del quale sono nato proprio a Ptuj – un meraviglioso paese di provincia dell’attuale Slovenia – anziché in Austria ed è il motivo principale per cui metà della mia famiglia ha vissuto, dopo il 1918, una storia completamente differente da quella dell’altra metà.
Sono un mitteleuropeo puro nato ai confini con i Balcani, poi trasferitemi sulle rive del solatio Garda. Grazie a questo scherzo della storia, alle esperienze maturate tra Vienna e Istanbul e alla comprensione mediata dalla distanza resa possibile dall’ovattato ambiente delle colline benacensi, guardo al generale Rudolf Maister come a uno di quegli eroi tragicomici di cui i Balcani sono pieni. Come il padre della nazione bosniaca Husrev-beg detto il Gazi (vincitore), o l’attentatore anarchico dell’arciduca Francesco Ferdinando, Gavrilo Princip, o ancora il maresciallo Josip Broz Tito, egli è stato per alcune generazioni un eroe assoluto, per altre un nemico della patria, per altre ancora non era nemmeno degno di essere menzionato nei libri di scuola.
Riferendosi alla crisi ucraina qualcuno a occidente di Trieste ha detto che i russi agiscono secondo schemi di politica estera risalenti al XIX secolo. Per quanto agli americani usi alla semplificazione o agli europei assopiti da oltre sessant’anni di irresponsabilità possa sembrare assurdo, nei Balcani si ragiona con schemi talvolta persino più antichi, non di rado risalenti agli albori del medioevo. Esattamente come la Russia, i Balcani sembrano avere il compito di svegliare a scadenze regolari le nazioni dal torpore, costringendole a uscire dal rifugio ovattato delle loro convinzioni e a comprendere le relazioni internazionali sulla base della pura politica di potere.
Poco tempo fa mi ritrovavo ad attraversare le vie centrali di Mostar, alla ricerca di un alberghetto dove passare la notte. Quel giorno sulla riva Ovest mi sono concesso una pljeskavica serba – l’unico, vero, originale hamburger secondo le popolazioni locali – nella parte croata della città, per poi concedermi un piacevole riposo con vista sul fiume Neretva nella parte musulmana, a pochi passi dal ponte simbolo del luogo. La mattina prima di partire per Belgrado ho gustato un buon caffè turco servito nelle piccole tazzine di manifattura locale. In modo del tutto casuale mi sono ritrovato con la mia macchina a fare il giro dell’ex Jugoslavia. Ero partito per un fine settimana di relax a Ragusa e avevo deciso che valeva la pena allungare un po’ il viaggio per far visita ad alcuni colleghi.
A Mostar ero arrivato dal Montenegro, al cui confine il poliziotto di turno mi aveva sorpreso facendosi scherno dei croati che per puro senso di superiorità intenderebbero bloccare l’accesso alle acque internazionali della Slovenia nel Golfo di Pirano. Dai documenti aveva visto che il mio luogo di lavoro era ubicato sulle rive del golfo conteso. Leggermente imbarazzato per il mio ruolo di consigliere di un ministro degli Esteri, ho dato diplomaticamente mostra di comprendere il suo commento, dato che anche il loro paese ha confini ancora non ben definiti con la Slovenia. Dimenticatosi d’essere un rappresentante ufficiale di uno Stato sovrano, il poliziotto mi ha risposto senza giri di parole: «Fortuna che noi abbiamo gli amici russi!». Da quando il Montenegro ha riottenuto l’indipendenza da Belgrado, ha lavorato molto sull’amicizia con Mosca, facendo leva sull’eterno desiderio russo di avere un punto d’appoggio in riva al Mediterraneo.
Oggi il premier montenegrino è per l’ennesima volta Milo Djukanović. Noto alle cronache italiane per la sua tolleranza negli anni Novanta del traffico clandestino di sigarette, i cui proventi hanno finanziato la stabilità politica del paese, Djukanović ha provato a giocare di sponda con i russi, cui però ha dovuto limitare l’accesso dopo la candidatura del Montenegro all’ingresso nella Nato. Gli americani devono avergli garantito l’immunità dalle accuse in cambio dell’inclusione nell’Alleanza Atlantica, mentre l’Italia ha fatto cadere i capi d’imputazione in cambio di una presenza dominante nel settore energetico.
Da Mostar mi sono recato a Belgrado attraverso strade e paesaggi che ancora oggi portano i segni della guerra bosniaca. Arrivato nella capitale serba un amico mi ha invitato a colazione al club dei parlamentari, sulle colline dove fin dai tempi del regno risiede la nomenklatura locale. La cosa non sarebbe degna di nota se non fosse per il fatto che il tovagliolo di lino posto sul tavolo a favore dei commensali recava lo stemma della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Sono passati ventitré anni dal crollo del paese, ma in un luogo ufficiale della nuova Repubblica di Serbia dove ogni giorno passano le ore libere i parlamentari locali, anche intrattenendo ospiti stranieri, il tempo sembra essersi fermato. Complice la vicinanza della tomba di Tito, che si trova dalla parte opposta della collina, sembra di avvertire la sua presenza nell’aere.
Se il Montenegro, coi suoi 600 mila abitanti, è sulla via della Nato e dell’Unione Europea, la Macedonia – nonostante le promesse – è ancora ferma ai tempi della dichiarazione d’indipendenza. Con «solo» il 64% di macedoni, è divisa da tensioni etniche sovente sfruttate dai paesi confinanti e per ora non ha nemmeno diritto a un nome. Bulgari e greci non mollano: storicamente la Macedonia è roba loro, pertanto il massimo che possono concedere è che Skopje si definisca in ambito internazionale come Fyrom, acronimo inglese di Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia. Dove va una nazione senza nome? Può solo perseguire il diritto all’esistenza in un contesto più ampio, che per la Macedonia è l’Unione Europea, l’unica strada che possa condurla fuori dall’attuale isolamento geografico e politico.
La Serbia, viceversa, non ha di questi problemi. I serbi sono certi della propria importanza e del fatto d’essere il punto di riferimento della politica nella regione. Tuttavia, la nazione serba è da sempre inchiodata alla convinzione che le proprie sconfitte, umiliazioni e mutilazioni territoriali siano causate da complotti esterni su cui essi non possono influire. Per capire questo popolo fiero basta sottolineare che la Serbia è l’unico paese al mondo ad avere come principale festa nazionale il ricordo di una pesante sconfitta militare. Quella sconfitta avvenuta nella Piana dei Merli contro l’esercito turco nel 1389 fu in verità un massacro cui i serbi andarono incontro consapevoli della loro inferiorità numerica. Il massacro dell’intera nobiltà e l’avanzata turca forse si potevano evitare con una politica più ponderata, ma questa risulta incompatibile con il senso di ineluttabile destino che spinge la Serbia ad atti drammatici e contraddittori.
È stato Ivica Dačić, successore di Milošević nel Partito socialista, a portare avanti in qualità di premier il processo di normalizzazione con il Kosovo, riuscendo paradossalmente dove il democratico Boris Tadić aveva parzialmente fallito. In piena schizofrenia balcanica, Dačić ha dichiarato: «La guerra del Kosovo l’ho combattuta, pertanto sono titolato anche a firmarne la pace!». E già si parla di possibile premio Nobel. Oggi nel parlamento di Belgrado, dopo le elezioni anticipate di marzo scorso, la maggioranza quasi assoluta dei seggi è occupata dal Partito nazionale del nuovo premier Aleksandar Vučić e del presidente della Repubblica Tomislav Nikolić. I deputati vengono tutti dal Partito radicale del criminale di guerra Vojislav Šešelj, sotto processo al Tribunale dell’Aia per crimini contro l’umanità durante le guerre serbe in Croazia, Bosnia e Kosovo. I radicali di ieri, oggi nazionali, avevano come visione ultima la costituzione della Grande Serbia, mito antico che tanto dolore ha provocato alle popolazioni della regione.
Oggi il giovane Vučić sembra sinceramente orientale a portare la Serbia nell’Ue presentandosi come forza di rinnovamento filo-occidentale, senza tuttavia dimenticare il panslavismo che lega Belgrado a Mosca. Non importa che Mosca abbia tradito lo storico alleato serbo non contrastando l’indipendenza del Kosovo nelle sedi internazionali, in modo da garantirsi un precedente che potesse darle in futuro piena libertà d’azione nella sua sfera d’influenza. Il tradimento rientra per i serbi nella logica del destino perennemente avverso, dell’impossibilità d’influire sui grandi giochi che si svolgono sopra le loro teste e di cui essi fanno sempre le spese. Ci sono abituati. Il legame rimane saldo e ha una forte connotazione commerciale, dal momento che tra Serbia e Federazione Russa – e, conseguentemente, Bielorussia e Kazakistan – esiste uno spazio economico unico. Belgrado esporta molto a est e tenta di uscire dal tunnel dell’instabilità economica, mentre Mosca sostiene (in modo ufficioso) il suo cammino verso l’integrazione euro-atlantica. Un’altra aberrazione geopolitica? No, puro senso strategico russo: meglio avere un proprio alleato tra le file nemiche da utilizzare quale cavallo di Troia, che un instabile vicino di cui prendersi cura.
Molti pensano che i focolai più pericolosi restino la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, ma in verità la regione ne nasconde uno ancora più insidioso: il Sangiaccato. Si tratta del corridoio di collegamento lasciato all’impero turco tra Regno di Serbia e Principato del Montenegro con il trattato di Santo Stefano del 1878, per consentire l’accesso alla Bosnia. È un mondo a sé, in cui il passato ottomano ha lasciato un’impronta indelebile insieme a rocambolesche storie di cappa e spada aventi per protagonisti i contrabbandieri che agivano a cavallo di mondi diversi. In uno spazio ridottissimo convivono musulmani, ortodossi serbi, montenegrini e bosniaci, cattolici, albanesi, mafiosi e politici che giocando sulle eterne divisioni del luogo mantengono uno stato di tensione permanente. Il tutto avrebbe un certo colore locale, se non fosse che grandi potenze come Stati Uniti, Russia, Canada, Turchia e Arabia Saudita cercano qui d’installare la propria presenza con investimenti internazionali nel campo delle infrastrutture, dello sfruttamento energetico e finanche della collaborazione accademica. A Novi Pazar, capoluogo della regione già in epoca ottomana, esiste un’università wahhabita e nella mia mente è ancora indelebile l’immagine della trionfale accoglienza tributata dalla cittadina nel 2010 a Erdoğan. Centinaia di bandiere turche alle finestre e ai balconi, insieme all’intera popolazione festante in strada, facevano dimenticare all’occasionale viandante di trovarsi nel cuore della Serbia. Ovazioni da stadio salutavano le parole del premier turco mentre tuonava contro le interpretazioni eccessivamente lascive dei sostenitori di Atatürk, prometteva grandiosi investimenti e connessioni più forti con i bosgnacchi serbi (quasi un ossimoro per qualsiasi analista occidentale!).
Il fatto che la Bosnia-Erzegovina sia un non-Stato è oramai generalmente accettato. Ci vivono 3,8 milioni di serbi, croati e bosgnacchi con 140 ministri, 800 parlamentari e un budget che per quasi il 50% è inghiottito da un apparato amministrativo assolutamente inefficiente. Lo Stato è retto da bande politiche, o meglio signorie feudali, dedite ad esaltare le divisioni etniche e gli antichi rancori. La corruzione è il vero collante del sistema, mentre la popolazione incomincia a mostrare i primi segni di nervosismo. Le proteste scoppiate a febbraio di quest’anno e gli assedi quasi spontanei ai palazzi del potere da parte dei civili hanno provocato un brivido di paura misto a sudore freddo nella comunità internazionale. La gente ha fame, il lavoro scarseggia, i giovani si vedono senza futuro, la politica non dà soluzioni, la religione musulmana si va radicalizzando e l’unico investimento estero visibile è l’apertura a Sarajevo di Aljazeera Balkan.
Il paese vive nel limbo: da solo non sopravvivrà. Ma leader politici quali il serbo-bosniaco Milorad Dodik, che accusa l’alto rappresentante di essere la causa di tutti i mali e spinge per la secessione della parte serba, preferirebbero soluzioni politicamente assai meno corrette rispetto all’ingresso nell’Ue auspicato dai pensosi intellettuali europei. Il fatto che la Crimea abbia scelto per referendum non già l’indipendenza, bensì l’annessione a un altro Stato sovrano stabilisce un precedente pericolosissimo. La Russia certamente non potrebbe opporsi a un eventuale ricongiungimento dei serbo-bosniaci alla madre Serbia.
Il Kosovo è uno Stato congelato, esistente solo per volontà di una parte della comunità internazionale e nel quale gli Stati Uniti mantengono Camp Bondsteel, la più grande base militare nei Balcani. Le strade della capitale sono ornate da due monumenti principali: quello in ricordo di Madre Teresa di Calcutta e quello in onore di Bill Clinton. Gli investimenti esteri sono instabili se a garantirne la redditività non ci sono gli americani ed ecco che anche un paese amico quale la Slovenia, la cui compagnia telefonica anni addietro ha comprato l’operatore mobile locale e ha aperto supermercati, desidera smarcarsi.
La stessa Slovenia, pochi anni fa simbolo di modernità e presa da Bruxelles a esempio per tutti i paesi dell’Est bramosi di unirsi alla grande famiglia europea, è in crisi profonda. Terminato il decennio di investimenti infrastrutturali che hanno pompato tanto l’economia quanto i fondi neri dei politici, si trova in mezzo al guado. Il sistema bancario, motore delle clientele, dev’essere venduto, la politica è senza soldi, le vecchie élite non hanno soluzioni per il futuro e l’economia deve trovare urgentemente nuovi sbocchi che possano ridare fiducia alla popolazione. I politici non trovano soluzione migliore che rispolverare vecchi rancori risalenti alla seconda guerra mondiale, durante la quale gli sloveni, secondo un’interpretazione, si sarebbero divisi tra filonazisti e filocomunisti. La stampa locale riporta ogni giorno notizie di revisionismi storici ad uso di quanti desiderano distrarre i cittadini dai problemi reali di un paese che ha evitato per un soffio la terapia d’urto della trojka. La Slovenia è in svendita, ha bisogno di liquidità a breve, ma la convinzione d’essere un anello indispensabile di connessione tra Europa occidentale, Europa orientale e Balcani fa sì che i politici coltivino false speranze in provvidenziali aiuti esterni.
La medesima convinzione connota i croati, ultimi arrivati in Europa, giunti a Bruxelles già irritati per esser stati lasciati in anticamera troppo a lungo. Il senso di competizione con gli sloveni, per non parlare dei serbi, è innato in questo orgoglioso popolo, per il quale una posizione di subordine nella regione è inaccettabile. Tale elemento psicologico deriva da un passato fatto di regni indipendenti, annessioni agli Asburgo, semi-indipendenze sotto la corona d’Ungheria e lotte fratricide con tanto di Stato fantoccio fascista durante il secondo conflitto mondiale. Con l’ingresso di Zagabria nell’Ue, noi cittadini europei abbiamo iniziato a vivere senza rendercene conto in un insieme dai confini incerti. Infatti la Croazia ha ancora aperte decine di contese irrisolte in materia di confini con Slovenia, Bosnia e Montenegro. Con Lubiana, dietro minacce di pesanti sanzioni da parte di Germania e America, sta sperimentando la via dell’arbitrato internazionale. Se dovesse dare i suoi frutti, la Commissione europea vorrebbe estenderla agli altri casi.
La Croazia ha aderito all’Ue nel peggiore dei momenti possibili. In crisi economica e segnata da una pesante disoccupazione, non ha trovato in Bruxelles la terra promessa sperata. L’allargamento dell’Ue ha inoltre avuto l’effetto negativo di far uscire Zagabria dallo spazio economico Cefta, togliendole il mercato di riferimento storico: la Bosnia-Erzegovina, che a sua volta ha perso la fonte più importante di investimenti diretti esteri.
Nel 2006 ho scritto su Limes di come Austria e Ungheria stessero cercando di ridare forma a una sfera d’influenza in questa zona del continente [1]. Mentre le banche viennesi legavano a sé le economie e (soprattutto) le famiglie dell’ex Jugoslavia, Budapest avanzava in Croazia con le acquisizioni petrolifere della Mol, attraverso cui tornava ad avere un accesso mediato all’Adriatico. Di tutto ciò oggi rimane ben poco. Le banche austriache sono state incorporate in giganti italo-tedeschi, o sono state annientate dagli scandali di corruzione; intanto, fino allo scoppio della crisi ucraina Zagabria puntava sull’acquisto da parte russa del pacchetto di controllo della locale rete petrolifera Ina in mano alla Mol, a cui sarebbe dovuto seguire l’investimento nel più grande centro di stoccaggio petrolifero dell’Europa centrale, da costruirsi alle porte della capitale.
La situazione economica e le difficoltà politiche odierne ricordano tanto il disorientamento asburgico antecedente lo scoppio della Grande guerra. La questione balcanica è lungi dall’essere risolta. L’unica via che le potenze internazionali intravedono è un misto di congelamento e di allargamento dell’Ue, nella speranza che l’inclusione porti con sé la stabilizzazione.
Il capo della diplomazia austro-ungarica Alois Lexa von Ährenthal, che sovrintese all’annessione della Bosnia-Erzegovina all’impero nel primo decennio del XX secolo, era assolutamente convinto che l’inclusione delle zone di tensione balcaniche in un contesto multinazionale regolato dal principio di legalità fosse l’unica soluzione possibile per la stabilità internazionale e che ciò potesse attuarsi in accordo con la Russia. Secondo i calcoli dei dignitari viennesi, l’annessione della Bosnia avrebbe tolto argomenti alla retorica panslavista serba nel momento in cui forti erano le pressioni sulla monarchia affinché si trasformasse da duplice in triplice, con il riconoscimento dell’elemento slavo. I fautori dell’allargamento sottolineavano inoltre i benefici economici di cui la regione avrebbe goduto una volta che le economie si fossero connesse con quella industriale austro-ungarica. Effettivamente l’allargamento dell’impero ebbe l’effetto d’inglobare la maggioranza degli slavi balcanici e degli stessi serbi, ma non diede risposte alle decine di questioni aperte. Oggi come allora, nella ex Jugoslavia esiste una netta divisione culturale tra popoli che hanno strutturato la propria identità nazionale all’interno di sistemi imperiali occidentali e popoli che hanno sperimentato il sistema ottomano, rimasto sostanzialmente alieno alla nozione di Stato nazionale. Ecco perché a distanza di oltre cent’anni dalle guerre balcaniche, che sono la premessa della Grande guerra, i problemi qui restano irrisolti. Non ci sono confini netti. Confini nazionali e nazionalità spesso non coincidono. Il Sangiaccato è stato spazzato via già dalla seconda guerra balcanica, spartito tra Serbia e Montenegro, mentre della Macedonia facevano bottino Bulgaria e Grecia. Ma oggi il problema del Sangiaccato resiste e la Macedonia potrebbe chiamarsi tale solo se nuovamente annessa a Grecia e Bulgaria.
Come alla vigilia dell’attentato di Sarajevo, la presenza turca non sarà fisica, ma si sente. I russi non hanno mai rinunciato ai propri interessi balcanici, l’impero asburgico multinazionale è stato sostituito dall’Unione Europea e dalla forza economica espansiva dei tedeschi, primi partner commerciali dell’area, mentre il grande fratello statunitense fa le veci della corona inglese e sovraintende ai grandi interessi, favorendo non poco Ankara in chiave di fattore di contenimento della Russia. La quale, a sua volta, continua a bramare mari caldi. Ovviamente il politico straniero, seccato dai troppi dettagli, sottolineerà che i tempi son cambiati e che non c’è nulla di cui preoccuparsi, dal momento che a Belgrado stanno procedendo in modo pro-europeo anche i vecchi nazionalisti.
Ebbene, i Balcani sono schizofrenici. Tutti quelli che ne hanno voluto annettere una parte o hanno tentato di stabilizzarli ci hanno lasciato eserciti e imperi. Qui le cose cambiano repentinamente e danno vita a tragiche reazioni a catena. Se nel maggio del 1903 un paio di ufficiali dell’esercito serbo non avessero assassinato il re Alessandro Obrenović per futili motivi legati alla vita scandalosa della regina, facendo passare il trono a Pietro della famiglia Karadjordjević, molto probabilmente la Serbia avrebbe, nel decennio successivo, mantenuto l’atteggiamento di simpatia nei confronti degli Asburgo tipico del re Alessandro. Invece, una passeggiata nel parco è stata fatale al mondo intero e ha dato le redini del regno in mano a un radicale.
Se non fosse per tutte le conseguenze che ne sono seguite, anche l’assassinio di Francesco Ferdinando potrebbe essere materia per un film di Woody Allen. L’attentato era già stato tentato da un membro della Giovine Bosnia, ma la bomba era caduta sotto la macchina sbagliata. Dopo il suo incontro con le autorità, l’erede al trono volle accertarsi personalmente delle condizioni della scorta ferita, ma l’autista sbagliò strada. In mezzo a una folla sbigottita, dovette farsi strada in retromarcia. In quel momento passò di fronte all’osteria nella quale Gavrilo Princip si stava ubriacando. Dovette ritrovare tutta la sua sobrietà per vincere l’incredulità che lo travolse nel momento in cui vide Francesco Ferdinando e consorte transitare a passo d’uomo di fronte al locale. Una serie di errori senza importanza permise a Princip di scaricare la sua pistola, dando avvio a un massacro e diventando per qualche decennio un eroe nazionale.
Sono un realista. Quando insegno agli studenti relazioni internazionali cerco di inculcare le categorie di interesse nazionale, bilanciamento dei poteri e sfere d’influenza. Ma mentre guardavo per l’ultima volta il tovagliolo con le sei fiaccole dello stemma jugoslavo mi rendevo conto che durante le confortanti spiegazioni che fornisco in classe quasi sempre evito di addentrarmi nelle questioni balcaniche. Sono questioni che rompono ogni schema e che per questo generano repulsione intellettuale. Anche al club dei parlamentari terminai il pranzo offertomi dall’amico con un buon caffè. (A Belgrado– dove il politicamente corretto quasi mai è di casa, ma dove la sottile arte della diplomazia e dell’ospitalità lo è – non si chiama né turco, né greco, ma più educatamente «locale».) Nel salutarlo gli raccontai una barzelletta molto popolare ultimamente in Slovenia: gli sloveni hanno voluto essere parte integrante dell’impero asburgico e questo si è sgretolato; poi hanno fondato il Regno di Jugoslavia e anche questo si è disfatto; hanno insistito con la Repubblica Socialista Federale, ma anche questa è finita male. Ora che sono finalmente entrati nell’Ue, quanto tempo ci metterà quest’ultima a dissolversi? La risata del mio interlocutore è stata sardonica e io ho abbandonato la collina con la sgradevole sensazione che forse, dopo cent’anni, la pallottola di Gavrilo Princip vaghi ancora per i Balcani.


1. L. GAISER, «L’Austria riscopre la geopolitica dell’impero», Limes, «L’Europa è un bluff», n. 1-2006, pp. 113-121.