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 2014  giugno 24 Martedì calendario

LA MERKEL APRE PERÒ NOI RESTIAMO FUORI


La Germania ha per la prima volta aperto le porte a una interpretazione flessibile del patto di stabilità. Apertura timida, condizionata, irta di palette però il segno di una presa d’atto di mutamento di clima politico interno all’Unione europea e di necessità se non di svolta, almeno di provvisoria deviazione dall’autostrada del rigore su cui ha fin qui viaggiato il vecchio Continente. La timida apertura è stata attribuita subito ad Angela Merkel, anche se in realtà è stata una dichiarazione del suo portavoce, Steffan Seibert, a segnare questo mutamento di clima. Parole in realtà non così di svolta, perché precedute da un avvertimento chiaro: «La credibilità deriva dal rispetto delle regole che ci si è dati». Il segnale tedesco è stato verso un rientro più lento nei parametri stabiliti dalle regole di finanza pubblica, anche per tenere conto del ciclo economico negativo ancora in corso in molti paesi. Ma non si tratta di una finestra spalancata: «Un prolungamento delle scadenze di rientro è possibile ed è già stato usato. Va però verificato caso per caso, e legato alle riforme strutturali».
Secondo non proprio disinteressate ricostruzioni circolate subito dopo questa dichiarazione del portavoce della Merkel, sulla Germania avrebbe avuto effetto il pressing congiunto del presidente francese François Hollande e di quello italiano Matteo Renzi. L’ipotesi a cui si sta lavorando su loro impulso sarebbe quella di svincolare dal calcolo del deficit (per la Francia) e dal percorso verso il pareggio di bilancio (per l’Italia) gli investimenti per opere strutturali cofinanziati dalla stesa Ue. Il presidente uscente del Consiglio, Herman Van Rompuy, sta preparando un documento per fissare i paletti di queste possibili nuove regole in quello che sarà il programma di governo della nuova commissione alla cui guida la Merkel vorrebbe il popolare lussemburghese Jean Claude Juncker (contro la cui nomina c’è ancora l’opposizione del premier britannico Cameron).
Van Rompuy ha già spiegato le linee politiche nuove che seguirà il documento, in cui si citerà la possibilità di un «pieno uso della flessibilità già integrata nelle regole del Patto di stabilità» per svincolare alcuni investimenti con l’obiettivo della creazione di nuovi posti di lavoro. Le parole naturalmente dicono poco. Sempre che il documento ufficioso poi riesca a divenire ufficiale, non sono molte le conseguenze effettive almeno per l’Italia. La flessibilità è già stata concessa sia per la Francia, cui è stato permesso un rientro più morbido dentro il tetto del 3%, sia all’Italia che ha chiesto per erogare i famosi 80 euro elettorali di rinviare di due anni l’approdo al pareggio di bilancio strutturale ormai previsto dalla Costituzione. In questo caso, peraltro, un via libera condizionato a un pacchetto di riforme che vanno dal mercato del lavoro al pagamento nei tempi dovuti delle fatture della pubblica amministrazione (e su questo capitolo già non ci siamo, vista l’apertura di una procedura di infrazione), a consistenti tranche di privatizzazioni per ridurre il debito pubblico. Su questo capitolo l’Italia ha promesso alla Ue 15 miliardi di incassi già nel 2014, ma a oggi non è arrivato nemmeno un cent.
Abbiamo quindi poco da festeggiare: dei vantaggi che verranno codificati già stiamo godendo, il rischio semmai è che vengano revocati. Il vero vantaggio da questa mini-svolta sembra essere quello che otterrebbe Hollande per la Francia, ed è comprensibile visti i rapporti fra i due Stati che ora la Germania tenda la mano. Anche se viene utilizzato come un mantra, l’ipotesi di uno svincolo di alcuni investimenti strutturali cofinanziati dalla Ue dal calcolo del rapporto deficit-Pil non rappresenterà una grande svolta per l’Italia, anzi. Quegli investimenti tanto per citare qualche numero sono piccola parte della spesa in conto capitale. Questa nel bilancio italianocon la sola eccezione del 2014è ormai voce in continua riduzione, per scelta dei governi nazionali e non per imposizione della Ue. Nel 2008 la spesa corrente italiana ammontava a 352,7 miliardi di euro, quella per interessi a 78,5 miliardi di euro e quella in conto capitale (la voce su cui ci sarebbe flessibilità), a 60,4 miliardi di euro. Nel bilancio italiano del 2014 le spese correnti ammontano a 502,053 miliardi di euro (150 miliardi in più del 2008), la spesa per interessi a 93,5 miliardi di euro (15 più del 2008, alla faccia dello spread), ma quella in conto capitale ammonta a 54,5 miliardi (6 meno del 2008). Cosa è accaduto? Che, parole a parte, i governi italiani non hanno tagliato la spesa pubblica cattiva (quella corrente), che è lievitata in cinque anni del 42,5%. Non hanno ridotto la spesa derivante dal debito pubblico (quella per interessi) che è aumentata del 19,1%. La spesa buona quella per investimenti su cui oggi ci potrebbero concedere un pizzico di flessibilità, è invece scesa del 10%. Ma il peggio viene dalla legge di Bilancio per il 2015 e il 2016, gli anni in cui l’Italia potrebbe approfittare di quella nuova flessibilità europea: la spesa buona, quella in conto capitale, scende a 38,03 miliardi (-15,14%) e l’anno successivo addirittura a 31,6 miliardi di euro (-41,97% rispetto a quest’anno). In parole povere: il Pd con l’ultima manovra approvata dal Parlamento, ha già tagliato e pesantemente a Matteo Renzi i margini della nuova flessibilità europea. Che a lui, e all’Italia, non possono servire praticamente a nulla.