Maurizio Schoepflin, Libero 24/6/2014, 24 giugno 2014
QUEL CHE RESTA DEL TOTALITARISMO LE STATUE SI VENDICANO DELLA STORIA
Exegi monumentum aere perennius, scriveva Orazio in una celebre Ode, esprimendo la certezza che il suo nome e i suoi scritti avrebbero conquistato l’immortalità, cosa a cui non possono aspirare neppure le statue bronzee. La certezza oraziana è figlia di un desiderio assai diffuso, quello cioè di costruire qualcosa che sfidi il tempo, che rimanga come un ricordo imperituro di persone ed eventi. Tale desiderio è molto presente anche nel campo della politica, ove i detentori del potere hanno spesso bramato di lasciare una traccia incancellabile. Questa volontà ha raggiunto l’apice con i regimi dittatoriali, che si sono distinti per aver attribuito uno straordinario valore simbolico alla costruzione di opere monumentali che perpetuassero i loro fasti.
Di tutto questo si discute nel bel libro, curato da Gian Piero Piretto, eloquentemente intitolato Memorie di pietra. I monumenti delle dittature (Raffaello Cortina, pp. 272, euro 25), in cui vari studiosi prendono in esame alcuni casi emblematici. I totalitarismi novecenteschi sono stati maestri nella costruzione di opere che, nelle intenzioni del potere, avrebbero dovuto assolvere due compiti: mostrare ai contemporanei la loro potenza e testimoniarla ai posteri, sfidando il tempo.
Alcuni saggi sono dedicati alle dittature comuniste che hanno tragicamente caratterizzato il XX secolo in vari Paesi, dalla Germania Est alla Jugoslavia, dall’Albania alla Corea del Nord e a Cuba. Particolarmente significativo è il caso della Jugoslavia, ove, all’indomani della Seconda guerra mondiale, il maresciallo Tito comprese che la sua autorità e la possibilità di tenere in piedi un Paese profondamente diviso dal punto di vista politico, religioso, etnico e culturale si sarebbero retti soltanto sull’esaltazione dell’epopea partigiana. A questo servirono, tra gli altri, i monumenti di Sutjeska e di Kozara, «località in cui tutti i bambini jugoslavi si recano in gita scolastica, per toccare con mano il cemento e l’acciaio con cui simbolicamente gli eroici partigiani hanno resistito a una delle sette offensive nemiche. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di opere molto evocative, non didascaliche. La loro forza simbolica è data dall’equilibrio fra l’originale arditezza delle forme e la possanza dei materiali utilizzati. Incarnano fisicamente ciò che vogliono raccontare: un’audace lotta partigiana sotto la guida di un poderoso pensiero politico. E anche una rivoluzione che si fa regime».
Non sarà un caso che, quando la Jugoslavia andrà a pezzi dilaniata da una feroce guerra civile, verranno fatte a pezzi anche le opere realizzate per inneggiare all’unità e alla fratellanza dei popoli che componevano la federazione: «In Croazia, negli anni Novanta, circa tremila memoriali, cippi, lapidi e monumenti vengono distrutti o rimossi, mentre un po’ dappertutto sorgono siti commemorativi in ricordo delle vittime del regime comunista o degli appartenenti all’esercito collaborazionista croato».
Dalla parte opposta, i regimi totalitari di destra percorsero strade simili: «Ancora prima di prendere il potere Adolf Hitler sapeva quale ne sarebbe stata la rappresentazione formale: immensi edifici e ingenti trasformazioni umane avrebbero mostrato l’essenza del Terzo Reich. La sua precoce fascinazione per l’architettura viene raccontata già nel secondo capitolo di Mein Kampf, dedicato agli anni della formazione e della “sofferenza” a Vienna».
Hitler individuò in Albert Speer l’uomo giusto per realizzare i suoi sogni malati di grandezza. Fu Speer a definire lo stile architettonico che avrebbe dovuto caratterizzare le maggiori città della Germania nazista: Berlino sarebbe stata dotata di «un nuovo asse viario nord-sud, dalla sede stradale larga 120 metri, compreso fra la Grosse Halle, detta anche Kuppelberg un immenso edificio a cupola, dalle proporzioni di una montagna, ricorda Canetti: 290 metri di altezza e 250 di diametro e un arco di trionfo alto 120 metri, con incisi tutti i nomi 1.800.000 dei caduti nella Grande guerra».
Dunque se, da una parte, le dittature non possono fare a meno delle opere monumentali che ne confermino e ne tramandino la grandezza, dall’altra sembra possibile stabilire un’affinità elettiva fra antitotalitarismo e antimonumentalità, come scrive Andrea Pinotti, docente di Estetica a Milano. Così, per onorare la memoria di chi dalle dittature è stato oppresso, sarà opportuno fare ricorso a realizzazioni che potremo definire contro-monumenti, privi della pesantezza, della superbia e della magniloquenza tipiche della cultura del totalitarismo.