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 2014  giugno 24 Martedì calendario

ECCO CHI UCCISE PETROSINO


PALERMO Il “peso” di un boss mafioso è certificato dai delitti compiuti, dal carcere affrontato con la schiena dritta, dal silenzio opposto a investigatori e giudici. Ma nel cifrarne la sostanza un ruolo forte lo hanno anche l’appartenenza, il retaggio familiare. Chi vanta una tradizione, a parità di titoli, conta di più. È un po’ come nella nobiltà, chi ha “quattro quarti” al momento opportuno se li appende al petto.
Ed è questo il caso di Domenico Palazzotto che mentre si vantava di discendere da antichi e magnanimi lombi, senza sospettare di essere ascoltato da una “cimice” della polizia, ha fatto luce, a distanza di 105 anni, su un delitto eccellente: l’uccisione del tenente della polizia di New York Joe Petrosino, di origine italiana - il primo ufficiale italoamericano della MDP - sbarcato a Palermo per indagare sui rapporti tra la “Mano nera” americana e la Cosa Nostra (come dire la Casa Madre) siciliana. Non ne ebbe il tempo. New York mise sull’avviso Palermo, il tenente andava fermato subito, prima che compisse danni. Così Petrosino fu ucciso, appena due giorni dopo l’arrivo in Sicilia, alle 20.45 di venerdì 12 marzo 1909, con tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto di grazia alla testa.
IL DELITTO
L’agguato avvenne sotto gli occhi di una piccola folla - che nulla vide - in attesa del tram a cavalli al capolinea di piazza Marina. Il delitto rimase impunito. Mandanti ed esecutori sono processualmente ignoti. Don Vito Cascio Ferro, boss di Bisacquino, fu sospettato di essere l’organizzatore. Petrosino lo conosceva bene, ma don Vito rimase vittima di “malagiustizia”: fu letteralmente dimenticato, senza acqua né cibo, nel carcere di Pozzuoli. L’inedia gli chiuse la bocca. Più tardi si sarebbe provveduto con altri mezzi: il veleno servito con il caffè a Pisciotta nella cella dell’Ucciardone.
Domenico Palazzotto è stato arrestato ieri con altri 95 presunti mafiosi durante una operazione interforze, coordinata dalla Dda di Palermo, che ha smantellato le cosche dei quartieri San Lorenzo e Resuttana. Ai vertici c’era anche, scrive l’accusa, Girolamo Biondino, fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina.
Conversando con gli amici degli amici della sua cosca, Palazzotto a un certo punto ha sentito il bisogno di calare sulla bilancia un carico da 90: «Lo zio di mio padre - ha confidato con orgoglio - si chiamava Paolo Palazzotto, ha fatto l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ucciso lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro». La cantata per vanto del pronipote, dunque, integra il quadro di uno dei tanti delitti eccellenti impuniti.
LASSISMO
Da un pronipote ad un altro. Parla, mentre la “cimice” ascolta Palazzotto, anche Nino Melito, pronipote di Joe Petrosino, ma ai palermitani raccolti sul luogo del delitto di un secolo fa, in una recente commemorazione del poliziotto italoamericano. Giuseppe Petrosino - ricorda Melito - nacque nel 1860 a Padula, provincia di Salerno, prima che il padre, un sarto, si trasferisse negli Stati Uniti. Ottenuta la cittadinanza americana, il figlio del sarto continuò ad amare l’Italia, sentimento che lo faceva soffrire nei momenti in cui era costretto a prendere atto che la terra dei suoi padri non aveva nessuna volontà di combattere le mafie. «Carissima moglie - scriveva pochi giorni prima di essere ucciso - sono arrivato in Palermo e mi trovo tutto confuso e mi pare mille anni di ritornare, non mi piace niente affatto tutta l’Italia che poi quando ne vengo ti spiego...».
Il suo disappunto derivava dal lassismo riscontrato negli stessi palazzi di giustizia, nelle questure e nelle prefetture. Insomma una denuncia piena di quella mentalità rinunciataria e complice che per secoli ha costituito il fertile terreno in cui la mafia è cresciuta e si è radicata. Incalzato da questi sentimenti, Petrosino fu il primo poliziotto a capire che per sconfiggere insieme la ”mano nera” e la mafia era necessario recidere la testa della piovra che allungava i tentacoli sulle due sponde dell’Atlantico. Decapitata la Cupola, sarebbe stato possibile annientare anche le metastasi che proliferavano nel vecchio e nel nuovo Continente.
ARCHIVI
Questa drammatica avventura umana è documentata dall’archivio organizzato da Nino Melito a cui ha potuto attingere Massimo Di Martino per scriverne una accattivante ricostruzione, edita da Flaccovio. La tesi di fondo del saggio spiega che Petrosino intuì, sulla scorta delle indagini svolte a Little Italy, che per sradicare la mafia bisognava creare un pool di detective, senza obbligo di divisa, con una sola mission: mettere spalle al muro in Sicilia e negli Usa i pezzi da novanta. Ed aveva individuato questa strategia - eccone la modernità - alla fine dell’Ottocento, con un secolo d’anticipo sul pool antimafia di Falcone e Borsellino.
Petrosino aveva un buon rapporto politico con Theodore Roosevelt e quando questi divenne Presidente gli diede carta bianca, autorizzandone la partenza per l’Italia, con il mandato di verificare la possibilità di creare una rete di intelligence antimafia bilaterale. La strategia del tenente prevedeva anche in prima battuta la costruzione di un archivio bilaterale per “mappare” la geografia criminale, tenendo conto anche del fatto che la Mano nera si basava su una organizzazione verticistica e piramidale, proprio come la mafia e la camorra dei giorni nostri.