Donatella Coccoli, Left 21/6/2014, 21 giugno 2014
ATTENTO A QUEL CHE DICI
[Gianrico Carofiglio]
«La qualità della vita pubblica si può desumere dalla qualità delle parole: dal loro stato di salute, da come sono utilizzate, da quello che riescono a significare», scrive Gianrico Carofiglio nel suo libro La manomissione delle parole. Allo scrittore – ex magistrato e parlamentare nella passata legislatura per il Pd – chiediamo un’analisi sul caso De Luca e sulle derive del linguaggio politico.
Lo scrittore Erri De Luca è stato rinviato a giudizio per istigazione a delinquere e incitamento al sabotaggio dopo un’intervista in cui aveva detto: «La Tav va sabotata». Che valutazione dà della decisione dei pm e poi del Gup di rinviare a giudizio lo scrittore?
Non ho l’abitudine di commentare le decisioni dei giudici, non lo facevo da magistrato e continuo a non farlo adesso. Fatta questa premessa, però, qualche concetto forse conviene chiarirlo, almeno dal punto di vista teorico. Intanto credo che qui il riferimento ai reati di opinione sia abbastanza improprio. Cerco di spiegarmi. Se io vado in una piazza, raccolgo un po’ di persone e dico loro “Andate a dare fuoco agli uffici delle tasse perché il fisco italiano è ingiusto”, questa non è, evidentemente, un’opinione ma un’istigazione a commettere una serie di reati gravi. Ovvero quello che per la legge è il reato d’istigazione a delinquere che, ben inteso, viene punito solo se l’istigazione è pubblica. Se qualcuno dice pubblicamente, in piazza o in un’intervista, che si deve sabotare – il che vuol dire: commettere il reato di danneggiamento aggravato – mi sembra naturale, senza voler anticipare un giudizio, che i pubblici ministeri vogliano sottoporre una frase del genere alla valutazione di un giudice. Chiarisco ulteriormente: la frase «va sabotata» significa che “si deve sabotare”, quindi significa non solo che è giusto, ma che è dovuto, che bisogna farlo. Siccome tagliare le reti corrisponde al reato previsto all’articolo 635 del codice penale, il reato di danneggiamento, quella frase vuol dire che si deve commettere un reato: qualcosa su cui si può a lungo ragionare ma che a mio parere è molto diverso da un’opinione.
Le parole diventano azioni?
“Sono” azioni. Un grande linguista francese, Brice Parain, diceva che «le parole sono pistole cariche».
Le parole diventano azioni?
“Sono” azioni. Un grande linguista francese, Brice Parain, diceva che «le parole sono pistole cariche». Troverei un po’ strano se a uno come De Luca, scrittore di talento, persona con grande sensibilità per le parole, sfuggisse la comprensione della potenza performativa delle parole, della loro capacità di produrre fatti nel mondo materiale. Come sostiene un famoso linguista, Austin, con la sua teoria degli atti linguistici, la parola produce effetti ed è in grado di cambiare il mondo che ci circonda, nel bene e nel male. Insomma, se dico “vai a sparare a qualcuno, vai a dare fuoco a qualcosa”, non sto esprimendo opinioni ma mi accingo a produrre fatti.
Che cosa si può dire allora di Berlusconi che ha affermato: «È moralmente giusto evadere le tasse». Oppure: «Le tangenti per determinati mercati sono una necessità e negarlo è moralismo da sepolcri imbiancati». Oppure, ancora, le frasi che lei cita nel suo libro: «Il Presidente Scalfaro è un serpente, un traditore, un golpista»?
Alcune delle frasi dette da Berlusconi probabilmente configuravano la pubblica istigazione a violare le leggi. Ma in generale tutta la lingua berlusconiana è una concreta manifestazione di una pericolosa attitudine a manipolare il linguaggio per piegarlo ai fini della propaganda politica.
Alcuni casi implicano il reato di istigazione?
Anche qui bisogna distinguere. Un conto è fare una riflessione di carattere generale linguistico-sociologico, un altro è valutare i singoli comportamenti per vedere se c’è il reato. Ma certo, se io dico in un comizio “Non pagate le tasse”, questa frase configura la pubblica istigazione a violare le leggi di ordine pubblico, tra le quali rientrano quelle in materia di fisco.
Si può ipotizzare l’istigazione all’odio razziale nelle frasi di Borghezio, riferendosi al ministro Kyenge, o quando parla del «governo del bonga bonga», oppure quando sostiene che «le idee di Breivik sono buone»?
Probabilmente sì, ma al di là della possibile configurazione occorre chiedersi se certe manifestazioni di miseria culturale e intellettuale siano meritevoli anche soltanto di una discussione pubblica.
Questo significa che ai politici è permesso l’uso di un linguaggio violento mentre agli altri cittadini no?
Si è diffusa, quasi inconsapevolmente, questa idea. Io però penso che ci si debba ribellare: l’uso del linguaggio violento è uno dei veleni che intossica la democrazia. Occorre sensibilità e, come si diceva un tempo, vigilanza democratica.
Da quando, secondo lei, si può far partire questo degrado progressivo del linguaggio? Possibile che tutto dipenda da Berlusconi?
Berlusconi è stato contemporaneamente sintomo e causa. Non c’è dubbio però che il degrado del dibattito politico italiano, della sua qualità, dei suoi toni, dei suoi contenuti, sia stato accelerato e intensificato dall’avventura berlusconiana. Che, non dimentichiamolo, è stata un unicum nella storia delle democrazie occidentali.
Che cosa pensa dell’attuale linguaggio della politica?
La situazione non è tranquillizzante, anche nel dibattito interno al Pd. Prendiamo la vicenda Mineo. I toni sprezzanti usati da una parte e dall’altra mi sono parsi assai spiacevoli e credo che, soprattutto chi sta vincendo e comanda, dovrebbe esercitare un’estrema vigilanza sul suo linguaggio, evitando il più possibile i toni violenti e il disprezzo per l’avversario, interno ed esterno.
Se si parla di linguaggio dentro il Pd la stessa parola chiave di Renzi, “rottamazione”, aveva creato non pochi malumori.
Rottamazione è una metafora forte ed efficace ma altrettanto brutta. Si rottamano gli oggetti materiali. Identificando le persone con cose da buttar via si evoca un’idea della politica e dei rapporti fra le persone che non mi piace affatto. Fra le espressioni di Renzi, molto più felice e capace di evocazioni positive è quella sulla sinistra che se sta ferma diventa destra.
In conclusione, esiste il rischio di reati d’opinione in Italia?
Direi proprio di no. Quanto al caso di Erri De Luca la questione è molto semplice: un giudice valuterà in base a tutti gli elementi della vicenda specifica se le frasi riportate nell’intervista corrispondevano a quelle che lui ha detto e poi se si trattava di opinioni o di un’istigazione a commettere reati. Possibilmente senza tentativi di condizionamento esterno. Il tentativo di condizionare i giudici è sempre un errore di grammatica della democrazia, allo stesso modo se viene da destra è accaduto spesso in questi anni o da qualche parte della sinistra.