Isabella Cioni, Focus 7/2014, 24 giugno 2014
È FICTION MA IL CERVELLO NON LO SA
Spinti dalla folla terrorizzata sotto una pioggia di meteoriti, lui e lei si rifugiano nello stesso portone. Stravolti, si guardano. Vicende complicate li hanno costretti a odiarsi per un tempo infinito (12 puntate!). Eppure lui adesso con la punta delle dita le pulisce un po’ di sangue dal viso, e il gesto diventa una carezza. Lei chiude gli occhi. Si amano, è chiaro. Infatti lei piange. E anche a noi è venuto un nodo alla gola.
NEURONI SPECCHIO. Il fatto è che guardando un film o una serie tv ci emozioniamo più spesso e più intensamente di quanto ci accada nella vita vera. Ci affezioniamo ai personaggi, viviamo insieme a loro grandi avventure e grandi amori. E questa condivisione di esperienze non è solo un modo di dire.
«Dal punto di vista del nostro cervello, la differenza tra mondo reale e mondo immaginario non è così netta come si potrebbe pensare» dice il neuroscienziato Vittorio Gallese, noto soprattutto per aver partecipato alla scoperta e allo studio dei neuroni specchio. «Se osserviamo la scena di un film in cui un uomo sta correndo, per esempio, nel cervello si attivano le stesse aree che si attiverebbero se qualcuno stesse correndo davvero davanti a noi. E queste aree non sono soltanto quella visiva (vedo una certa immagine) e cognitiva (capisco che c’è un uomo che corre), ma comprendono quelle motorie (i miei neuroni si attivano “simulando” il gesto di correre, anche se con minore intensità rispetto a quando lo faccio veramente) e limbiche (facendo “risuonare” dentro di me, attraverso i miei ricordi e le mie emozioni, cosa significa correre)». Così, anche se sappiamo che quello che accade sullo schermo non è reale, piangiamo, ridiamo, ci arrabbiamo, ci spaventiamo ugualmente. E perfino il nostro corpo partecipa a queste emozioni.
Se poi quelli che vediamo agire sono i protagonisti di una serie, che magari ci ha tenuto legati allo schermo per molto tempo, il nostro coinvolgimento è ancora più forte. «Quando entriamo in relazione con gli altri, i nostri cervelli si “sintonizzano”: significa che quanto più li osserviamo, quanto più simuliamo e quindi siamo capaci di anticipare i loro gesti e pensieri, tanto più ci affezioniamo perché ci diventano famigliari. Non a caso si dice che le persone che vivono insieme per parecchi anni finiscono con l’assomigliarsi» spiega Gallese. «Accade la stessa cosa quando abbiamo a che fare con i personaggi di un telefilm. L’esposizione seriale di un personaggio aumenta le nostre possibilità di immedesimazione. Ci identifichiamo meglio e ci affezioniamo di più».
PERCHÉ SERVONO. Ma perché ci accade questo? Siamo sicuri che tutta questa attività cerebrale messa in moto da film e serie tv, così come dalla letteratura e dall’arte, serva solo a distrarci dalle nostre noie quotidiane e a divertirci? Secondo molti studi, la risposta è no: le storie, non importa come siano raccontate, se da una voce, un libro o un telefilm, sarebbero addirittura fondamentali per la nostra esistenza, sia come individui sia come specie.
«Se non fosse così» sostiene Brian Boyd, studioso dell’Università di Auckland, in Nuova Zelanda «l’evoluzione avrebbe già eliminato da un pezzo la nostra continua fame di narrarle e di ascoltarle». Fame che, per inciso, si manifesta nell’infanzia quando giochiamo a “facciamo finta che...” e prosegue tutta la vita con l’attrazione per i film, i romanzi, ma anche i pettegolezzi e perfino con la tendenza a sognare a occhi aperti. Per Boyd, ma anche per altri teorici dell’evoluzione come gli psicologi Steven Pinker (docente di Harvard e Mit) e Michelle Scalise Sugiyama (dell’Università dell’Oregon), le storie sarebbero una sorta di palestra per la mente, che serve a esercitare i nostri muscoli mentali attraverso la simulazione di quanto vediamo, leggiamo, ascoltiamo.
In particolare, le storie sarebbero lo spazio nel quale alleniamo il cervello a utilizzare le competenze più importanti della vita sociale, utili per la nostra sopravvivenza. Svolgerebbero questo ruolo, sostiene Pinker, fornendoci un archivio mentale riguardo a situazioni complesse che un giorno potremmo trovarci ad affrontare.
EMPATIA. D’altra parte non è un caso, come fa notare Jonathan Gottschal, studioso di letteratura ed evoluzione e autore de L’istinto di narrare, come le storie ci hanno reso umani (Bollati Boringhieri), che le storie ci piacciono quanto più sono intricate, quanti più dubbi, pericoli e difficoltà i nostri eroi devono superare. Se il “training” è duro, infatti, è più efficace.
Riassume Gottschall: «Ci identifichiamo così intensamente con le tensioni dei protagonisti delle fiction che non solo proviamo simpatia, bensì sviluppiamo nei loro confronti una forte empatia. Sentiamo la loro felicità, il loro desiderio, la loro paura; il nostro cervello si infiamma come se ciò che sta accadendo a loro stesse realmente accadendo a noi. La costante attivazione dei nostri neuroni in risposta a stimoli derivanti dal consumo di finzione narrativa rafforza e definisce le vie neurali che consentono una navigazione competente nei problemi dell’esistenza...».
Non si tratta solo di teorie: in un esperimento del 2006, gli psicologi Raymond Mar e Keith Oatley dell’Università di Toronto provarono per primi che i forti lettori di fiction hanno migliori competenze sociali di chi legge solo saggi. E, puntualizzarono i ricercatori, l’esperimento fu svolto in modo da poter escludere che questo avvenga perché le persone con migliori abilità sociali sono anche le più inclini alla fiction.
VALORI. Non è ancora finita. La finzione narrativa, compresa quella dei telefilm, avrebbe anche un ruolo etico e di controllo sociale: ci insegnerebbe infatti quali sono le “regole del gioco” della nostra comunità, cosa è bene e cosa è male. Certo, il sangue spesso vi scorre a fiumi. Traditori, assassini e torturatori a volte vengono puniti esplicitamente, altre no.
Ma, di fatto, quando non è lo stesso autore a mostrarci la pena, come spettatori siamo sempre posti nella condizione di giudicare quello che è giusto e quello che non lo è. E farlo ci piace moltissimo.
«Come i miti sacri» scrive Gottschall «anche le storie comuni, dalle serie televisive alle fiabe, imbevono tutti noi delle stesse norme e degli stessi valori. Stigmatizzano in maniera inflessibile i comportamenti antisociali e, in maniera altrettanto inflessibile, esaltano i comportamenti che vanno a favore della comunità».
Anche di questo esistono dimostrazioni scientifiche. In uno studio svolto nel 2008 dallo psicologo Markus Appel dell’Università di Koblenz-Landau (Germania) si evidenziò che, tra gli spettatori televisivi, chi guardava più spesso film e telefilm aveva convincimenti più forti riguardo all’esistenza di un “mondo giusto”, per cui vale la pena “comportarsi bene”, rispetto a chi guardava solo news e documentari.
Insomma. Non permettete più che qualcuno critichi la vostra passione per le fiction: non solo ci rendono più capaci di stare al mondo e di trattare con i nostri simili. Ma ci fanno anche diventare più buoni.