Giampaolo Tarantino, Linkiesta 12/6/2014, 12 giugno 2014
ISIS, LA VICINANZA PERICOLOSA AL PETROLIO IRACHENO
Gli jahadisti allungano le mani sull’Iraq e sul suo petrolio. Il gruppo islamista estremista che in Siria combatte il regime di Bashar al Assad, ha fatto sventolare il proprio vessillo nero su Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq e capoluogo della provincia di Ninive. Il giorno successivo, mercoledì 11 giugno i miliziani dell’Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, hanno preso Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Kirkuk, roccaforte curda e importantissimo centro petrolifero, era stata presa dall’Isis ma ora sembra essere sotto il controllo dei curdi. I miliziani si sono spinti, nella notte tra giovedì 12 e venerdì 13 alle porte di Baghdad, nella provincia di Diyala.
L’avanzata degli estremisti sunniti dell’Isis, oltre a causare nuove vittime e a mettere a rischio la sicurezza del Paese, rischia di avere conseguenze sul mercato globale degli idrocarburi. Il “Paese dei due fiumi” è strategico per gli equilibri energetici mondiali. Ha riserve stimate in 143 miliardi di barili (il 9 per cento delle riserve mondiali) che ne fanno il terzo produttore al mondo dopo Arabia Saudita e Russia.
Gli scontri e le violenze si stanno allargando a macchia d’olio nel nord e nell’est dell’Iraq e si aprono non pochi interrogativi sul futuro petrolifero del Paese. Nella provincia di Ninive passano le pipeline che portano il petrolio oltre il confine settentrionale. Le violenze si stanno avvicinando al Kurdistan, regione federale indipendente dal governo centrale di Baghdad, da dove viene estratto un terzo dell’intera produzione nazionale di olio nero e dove operano grandi multinazionali dell’energia come le americane Exxon Mobile e Chevron, la francese Total e la cinese Petrochina che gestisce la grande raffineria di Erbil.
Come ha scritto Nick Cunningham, analista di Oilprice, gli attacchi dell’Isis nel Nord dell’Iraq pongono seri problemi di sicurezza dell’eleodotto che dal Kurdistan trasporta l’oro nero fino alla città turca di Ceyhan. Secondo il Washington Post, la più grande raffineria del Paese, quella di Baiji, l’11 giugno avrebbe interrotto la lavorazione del greggio a causa dell’attacco degli estremisti islamici. La regione ha diverse raffinerie e pozzi di petrolio, ed è corridoio di passaggio degli oleodotti che dall’Est del Paese vanno verso le regioni occidentali.
«Perdere Mosul renderebbe molto difficile nuovi investimenti nei settori del petrolio e del gas in tutta la regione», ha detto a Bloomberg News Paul Sullivan, esperto di Medio Oriente della Georgetown University. L’avanzata del gruppo estremista legato ad al Qaeda (che però agisce in relativa autonomia essendo in contrasto con Ayman al-Zawahiri, leader dell’organizzazione terroristica fondata da Osama Bin Laden) che sta tentando di edificare uno stato islamico all’interno dell’Iraq potrebbe scoraggiare gli investimenti delle grandi multinazionali dell’energia già costrette a fare i conti con sabotaggi e problemi di sicurezza. Ma gli iracheni hanno bisogno del know how e della tecnologia delle grandi major del petrolio per aumentare i ritmi di produzione.
A febbraio, l’Iraq aveva prodotto oltre 3,6 milioni e mezzo di barili al giorno, a marzo 3 milioni, con un incremento record di oltre un milione di barili in sei mesi. Un risultato del tutto inaspettato che ha riportato l’Iraq sui livelli dei primi anni ’90, prima che il Paese venisse sconvolto dalla guerra del Golfo.
Linkiesta aveva già raccontato come a cavallo tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 il riaccendersi delle violenze settarie e una prima ondata di attacchi da parte dei miliziani dell’Isis aveva messo seriamente a rischio gli obiettivi di produzione. Poi c’è stato l’inaspettato boom e gli iracheni hanno deciso di confermare il target dei 4 milioni di barili al giorno per il 2014 e di 4,7 per il 2015. Obiettivi che sembrano difficili da raggiungere, anche alla luce dell’instabilità che si sta diffondendo nel Paese.
Anche grazia all’exploit iracheno la produzione di petrolio Opec, il cartello che riunisce i Paesi esportatori, a maggio è salita di 340 mila barili al giorno toccando in totale i 30 milioni di barili. Un aumento di poco superiore al target dell’organizzazione con sede a Vienna. L’aumento è dovuto in buona parta alla produzione in Iraq che compensa il calo della Libia. A livello globale, la ritrovata capacità produttiva di Baghdad assieme al reinserimento del petrolio dell’Iran (terzo esportatore mondiale di greggio) sui mercati internazionali avrebbe dovuto mettere la produzione Opec al riparo da cronici problemi in Libia e Nigeria e garantire prezzi costanti.
Dall’inizio dell’anno il petrolio Wti, quello utilizzato come parametro di riferimento per i contratti scambiati sul mercato americano, è passato dai 93 dollari di gennaio ai 103 di luglio. Il Brent, il greggio di origine europea, è passato da 106 a 109 dollari. L’11 giugno l’Opec ha deciso di mantenere invariato il prezzo e di congelare i livelli di produzione. L’Arabia Saudita ha deciso di continuare a sopperire per altri Paesi come Iran e Libia che stanno attualmente producendo al di sotto delle loro capacità. Tuttavia se la situazione in Iraq dovesse continuare a peggiorare, una parte della capacità produttiva potrebbe andare persa facendo schizzare il prezzo verso l’alto.