Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 22 Domenica calendario

«VAGABONDO E ILLUSO, PAGO IL PREZZO DELLA MIA LIBERTÀ»

[Intervista a Riccardo Mannelli] –
Come i ferrovieri di Pietro Germi, Riccardo Mannelli riempie di fumo le osterie di fuori porta e della “corona di spine che cinge la città di Dio” conosce ogni crocicchio. A due passi dalla Prenestina, dai palazzoni in cui abitava il ragionier Fantozzi e dal cemento della Tangenziale, Mannelli arrivò “quasi per caso” nel 1984. Con due abbondanti decenni di ritardo su Visconti e Nanni Loy: “Il Pigneto non l’avevo mai sentito nominare. Le mie colonne d’Ercole erano ai confini del Colosseo, si andava a piedi, ci si conosceva tutti”. E tra le case basse del quartiere, “in una Roma che non era Roma”, in piena armonia con Pasolini e con l’esorcismo dei suoi accattoni: “Come lo voi er trasporto funebre?”, “Cò tutti l’amici dietro che ridono e per primo che piagne paga da beve a tutti” è rimasto con apolide allegria: “Mi hanno chiamato lo straniero per 25 anni, poi si sono abituati”. Mannelli veste un grembiule sdrucito, si gratta la barba, si alza, si siede. Usa il mignolo come un artiglio per non perdere contatto con l’accendino, tiene le Nazionali a portata di mano e ogni giorno, per non riflettere sul funerale degli entusiasmi giovanili e ricominciare da zero, infila la chiave dell’incoscienza in una porta anonima. Dietro il laminato in finto oro e i vetri zigrinati, nel panorama di un confine zingaresco in cui a tavole, pennelli e cavalletti si aggiungono gatte grigie, proterve e minacciose: “In effetti qualche volta Pipi mi mozzica il culo”, Mannelli scorge la curva dei sessant’anni senza presumere di dover cambiare. Con la felicità ha un rapporto complesso: “È una parola che amo, mi turba moltissimo e che ho timore a pronunciare”, ma dopo trent’anni di generose peregrinazioni tra il Male e Linus, il Nicaragua e i congressi socialisti, i premi, le Biennali e i Festival ha imparato che la disillusione è un sentimento privato. Agli allievi dell’Istituto Europeo di Design insegna a illustrare seguendo l’istinto: “Per me è stato importante” e nel parlare dei loro sogni e del coraggio che è servito per abbrancare i propri, non sventola la ferocia che nei suoi quadri, tra servi, puttane, ladri e plastiche rappresentazioni di un potere macilento, sgorgava dalla Bic “come un respiro animale”. Aggredire il foglio: “È stata una necessità molto più che terapeutica. Disegnare mi faceva star bene e a me che sono edonista ed epicureo, star bene piace. Sarei contento anche di far sorridere gli altri, ma tra i ragazzi che ascoltano le mie lezioni non scorgo sorrisi. Eppure non sono dei coglioni, garantisco. Sono solo spossati, depressi, stanchi, inermi”.
Perché?
Aver visto soltanto l’ultimo ventennio, per la generazione del ’94, è una tragedia. In questi vent’anni non è successo nulla e l’Italia è ritornata autarchica, pigra, marginale e disinteressata a ogni fermento. Non c’è respiro vitale. Ad annusare cosa succeda artisticamente da queste parti, non viene più nessuno perché hanno già deciso che da qui non usciranno proposte, talenti e novità. All’estero ci considerano pagliacci, macchiette, saltimbanchi. Gente bizzarra. Nel 2009, quando proiettai sulle pareti dell’Ara Pacis l’Apoteosi dei corrotti venne l’Associated Press a riprendere l’evento. Portarono il materiale a Londra e si sentirono fare una strana domanda.
Quale?
“Ma questo Mannelli spacca qualcosa? Piscia sull’Ara Pacis?” “No, fa solo arte”. “Allora non ce ne frega un cazzo”. Così risposero. Non dobbiamo aspettarci elemosine, ma reagire. Se non ripartiamo dalla bellezza, dall’uomo e dalla sua storia, dalla formazione, dai nostri figli, da qualcosa che in epoca premoderna abbiamo insegnato al mondo, è finita per sempre. E in Italia, tranne rarissime eccezioni, oggi sembra finita ogni cosa.
Crede davvero?
Dal cinema alla musica, da oltre 20 anni, non ci raccontiamo più niente. L’artista che propone una soluzione dovrebbe farsi sentire, avere voce in capitolo ed essere ascoltato. Ma da noi, a patto che abbiano un qualche ruolo mediatico, parlano solo gli scendiletto dei potenti e anche l’arte, ne risente.
Con quali conseguenze?
Siamo pieni di paccottiglia postmodernista, di cattelanate furbine, di orrori kitsch spacciati per avanguardia. Ora intendiamoci, il cielo è ampio e generoso e per me può esistere ogni nefandezza. Non dirò mai “quella non è arte”, c’è spazio per chiunque e l’artista è sempre sedicente. Chi cazzo ti può dire che sei tale? Nessuno.
Quindi?
Quindi hai tutto il diritto di produrre ciò che preferisci. Però io posso dire la mia e dico che con quelle cosine lì, al massimo fai decorazione. Arredo urbano. Avrei potuto farlo anch’io e magari sarei diventato ricco come Pomodoro che con le sue palle rotte ha fatto una fortuna.
Invece?
Gli anni ’80 erano comodi, ma la comodità è nemica della conoscenza. Se stai comodo, chi cazzo te lo fa fare di approfondire? Ho preferito sempre rimanere con due scarpe e una ciabatta anche quando, al terribile tramonto di quel decennio, si buttarono tutti a raggranellare il raggranellabile filosofeggiando sicuri: “Vedrai che toccherà anche a te dare via il culo”. Non è successo e la scelta ha avuto un prezzo.
Un prezzo alto?
La libertà costa. La paghi rimanendo in bolletta, ma non importa. Covo ancora l’illusione che il paese si possa salvare soltanto provando a riscoprire il bello. Non certo con le riformine in cui si mettono due soldini di là o 80 euro di qua. Quella è roba che evapora in due ore e si porta via i Renzi, i ronzi e anche gli stronzi.
La risalita è complicata?
Il Paese, a meno che non arrivino per un periodo i Caschi Blu dell’Onu, non si risolleverà. Ci vuole un choc. Un commissariamento totale. Noi tutti, nessuno escluso, a fare i bagnini e i ristoratori e le persone serie a sovrintendere alle operazioni di bonifica. Dovremmo cambiare anche nome. Basta con Italia. Meglio Penisola 66. Sa di penitenza, di penitenziario, sente come suona bene?
L’Italia di oggi è una galera?
Non siamo indietro di 30 anni, ma di qualche secolo. Malgrado i disastri e due guerre sanguinose in un secolo breve, all’Italia manca qualunque barlume di dinamismo ed etica moderna. Altrove, al ritmo di una crescita enorme e della cultura della riforma, le società si sono emancipate ed evolute. Qui non è accaduto e a dominare sono autoreferenzialità e corporativismo. Oggi, scappati i buoi, è tardi. L’unica soluzione sarebbe mettere in galera tutti gli italiani. Non mi esercito da tempo, ma quando facevo satira, il mio obbiettivo erano loro e non la classe dirigente che visti i sudditi, anche se dirlo fa male, resta la crème de la crème del Paese.
Lei l’ha ritratta senza indulgenze.
Tenendomi alla larga dal moralismo. Da autodidatta totale, in realtà sono stato sempre molto trasversale. Ero un vagabondane. Un vagabondo del Karma come diceva Kerouac, un ignorantone curioso, scarpe grosse e cervello fino, come in fondo sono rimasto.
Prima di arrivare qui al Pigneto, “in una povera, umile, sconosciuta stradetta perduta sotto il sole”, Riccardo Mannelli dov’era?
A Pistoia, dove i Mannelli, fascisti della prima ora, grazie a un accordo con le Ferrovie, avevano il monopolio nazionale del trasporto su gomma. Ha presente Gondrand? I camion gialli delle canzoni di Paolo Conte? Le dimentichi. Negli anni ’30 la famiglia era una piccola potenza dell’imprenditoria italiana.
Poi le cose cambiarono?
Oltre al crollo del Regime, alla bancarotta del dopoguerra contribuì l’inadeguatezza delle nuove generazioni. Guido, il capostipite, un bell’uomo dalle origini misteriose, sapeva far di conto. Mio nonno Riccardo invece, molto simpatico, cresciuto da figlio di papà in una bambagia vaporosa fitta di feste e benessere, pur sbattendosi moltissimo, non riuscì a far fronte alle responsabilità. Nel disastro rimase coinvolto anche mio padre. Che era dolcissimo e mondò la sua gioventù dissoluta e fascistoide andando in montagna con i Partigiani . I tedeschi lo cuccarono subito e finì in campo di concentramento. A casa nostra comunque, in una città in cui i soldi li avevano fatti davvero tutti, i benefici del boom dalla tv alla lavatrice, arrivarono tardi. Mia madre Lidia era spiritosa, amava motteggiare: “Quando avremo la macchina, gli altri si sposteranno in elicottero”.
Alla fine si spostò anche lei.
Del disastro endemico della realtà italiana, la capillarizzazione dei capitali nascosti, delle ricchezze depositate al sicuro, della “robba”, non vedemmo nulla. Così ci dovemmo industriare e mia madre, donna umile, abile nel ricamo, molto moderna e intraprendente, ebbe un’intuizione . Provò a portare i suoi lavori da sartina a Roma. Avevamo una zia pittrice, Deanna Frosini, poi assurta a ritrattista di Craxi che conosceva e frequentava nobili, teatranti e gente del cinema. Mamma la avvertiva del nostro arrivo. Poi stipava la 500 familiare con valigioni di tovaglie e merletti e in viaggi che somigliavano a epopee, calvari in cui si perdeva la cognizione del tempo, mi caricava sul retro e partiva alla volta della Capitale.
Che Roma trovò negli anni ’60?
Un borgo. Mamma si arrangiava e conosceva tutti. Passavamo dai salotti della contessa del Drago a casa Volontè. Incontravamo Albertazzi, Moravia, Lina Nervi Taviani, Del Buono e Dacia Maraini. Io ero già quello particolare, strano, il disegnatore con l’aura del genietto a cui Lietta Tornabuoni, dall’America, portava in dono cartate di fumetti. Poi a Roma tornai, 10 anni più tardi, trovandola trasformata. Alcuni dei personaggi che riempivano la vita intellettuale della città si erano già rinchiusi in casa.
E lei si unì alla setta dei disegnatori.
Non dico che da Pistoia fossi arrivato con la piena, ma quasi. Ero già un ometto di mondo e un padre, ma a vent’anni, per quanto tu abbia girato, rimani un pirla. Di metropoli non sapevo nulla e poi bisognava schierarsi politicamente. Mi rifiutavo.
Del Male cosa ricorda?
Un lampo effimero. Prima di trasferirsi a casa di Pino Zac, la primissima redazione, quella che diede vita al numero uno, aveva sede nella tipografia dei fratelli Abete. Giancarlo e Luigi erano diversi. Luigi era un capellone e a differenza del fratello, continua a starmi molto simpatico.
Che ruolo hanno avuto gli amici nella sua vita?
Sono stati importanti, ma ne ho avuti pochissimi. Ho sempre pensato che la sostanza fondamentale di ogni percorso artistico parta da un equilibrio sentimentale. All’inizio era introvabile e gli inferni quotidiani, numerosi. Non a caso ho lavorato per anni sui maleducati sentimentali. Agli amici ho sempre preferito una forma di rispettosa distanza, anche se non sono così orso, isolato e scontroso come mi descrivono. Ma ho dovuto fare i conti con la bestia che avevo dentro. Ero un selvaggio e anche se negli anni sono stato costretto a dare una dimensione all’origine ferina, a civilizzarmi, a mitigare il tratto esistenziale, continuo a stare benissimo da solo. All’amicizia stanziale, preferivo la conoscenza itinerante. Zompavo da un ambiente a un altro. La politica, l’universo hippie, gli anarchici, i musicisti.
Anche i musicisti?
A Pistoia, a 16 anni, avevo conosciuto Dalla. Veniva a fare le prove con Roger Mazzoncini, un bravo tastierista del periodo roversiano. Conobbi anche Roversi. Personaggio strepitoso che al momento giusto seppe ritirarsi in buon ordine. Tra lui e Dalla il rapporto era paritario. Lucio era una spugna furba e intelligente. Con grande onestà andò a lezione dal poeta perché da solo, all’epoca, certi testi non avrebbe mai potuto scriverli. Se i dischi successivi alla loro collaborazione sono dei capolavori, Dalla lo deve senz’altro anche a Roversi. C’è una parte in cui carichi benzina prima di partire e un’altra in cui fai il viaggio e la consumi. È accaduto a Dalla e anche a me.
Volti che rimpiange?
Il grande amico di Benigni, Donato Sannini, un meraviglioso pazzo di genio che in anni in cui la coca girava a fiumi e non si pensava troppo al domani, viveva ogni giorno come se fosse l’ultimo. Dormiva spesso all’Alberichino o al Beat ’72 di Ulisse Benedetti. Peccato che Donato sia morto così presto.
Di Benigni che memorie conserva?
Non mi capacito della fine che ha fatto. Lo vedevo come un eroe. L’ariete che avrebbe abbattuto il sistema con la poesia del lazzo, come il Caterpillar che non conosceva argini e che avrebbe aperto la porta del castello. Nel castello poi Benigni ha finito per accomodarsi e per me che lo avevo visto all’epoca del Cioni Mario, la delusione fu brutale. La sua parabola mi ha fatto capire molte cose di questo Paese.
Quali?
Son talmente tante che non gliele dirò. Detesto dare giudizi. È un vizio nazionale. Non mi accodo. Faccio il mio e cerco di farlo al meglio.
Colleghi che stima?
Tanti. Da Bucchi ad Altan che adoro perché è molto poco italiano e ha fatto cose eccezionali.
Elle Kappa?
Anche se è agli antipodi di ciò che penso, mi è simpatica e ci conosciamo da tanto tempo. La deluderò ancora. Il giochino finisce qui, altrimenti dico inutili cattiverie di cui non mi importa nulla. Preferisco continuare a voler bene a modo mio.
L’eretico Mannelli è stato cacciato e ripreso da moltissimi giornali.
Credo che Eugenio Scalfari abbia passato metà delle sua vita a buttarmi fuori da Repubblica e l’altra metà a stupirsi e a credere che Mannelli fosse sinonimo di disegnatore. Un Mannelli, in un angolo del giornale, magari nel reparto amministrativo, spuntava sempre.
Ebbe problemi anche con Paese Sera e Messaggero.
A Paese Sera, quando mi occupai di qualche potentato, feci prendere una paura a quel pretino del direttore. Al Messaggero invece ebbi altri problemi. Mi mandarono a seguire il Maxiprocesso a Palermo con il compito di stare accanto ai gabbioni dei mafiosi. Mi ruppi i coglioni e uscii per raccontare il vero Maxiprocesso in una città che, palesemente, era ancora gestita da quelli dietro le sbarre.
E chi trovò?
I ricchissimi giovani di Palermo che il loro giudizio del tutto assolutorio l’avevano già emanato. Li raccontai. Al giornale le mie storie parallele non garbarono un cazzo.
In quegli anni sotto le bombe seguì il conflitto nella ex Jugoslavia.
Cazzate che fai una volta o due e poi non fai più, perché le cazzate rimangono cazzate. Per fortuna un minimo di buon senso mi ha sempre salvato il culo, ma non son fatto per raccontare la guerra o per morirci sotto. Io devo tornare a casa a disegnare. Della guerra ti ricordi gli odori. Non ti immagini quanto sia acre il puzzo del sangue. Non ti immagini un sacco di cose prima di vederla, una guerra.
Ha ricevuto anche molte querele.
Querele, processi farsa, lettere indignate. Cose legate al buon costume, al cazzo, alla fica, ai corpi. Ho perso il conto, ma non faccio il martire. Ho sempre sostenuto il diritto alla censura. È una dichiarazione di chiarezza: se c’è qualcuno che ha una sana indignazione, non eccepisco. O mi ami o mi odi. Ma non mi straccio le vesti, non l’ho mai fatto.
Malcom Pagani