Antonio Gnoli, la Repubblica 22/6/2014, 22 giugno 2014
UMBERTO VERONESI
[Intervista] –
Vado a trovare Umberto Veronesi ben consapevole di trovarmi di fronte a un uomo che ha speso molto delle sue energie e della sua intelligenza per una guerra di lunga durata contro il cancro. Quella parola, “cancro”, — per decenni invisa, nascosta, condannata o rimossa — oggi sembra fare meno paura. Mentre con un taxi mi faccio portare all’Istituto europeo di oncologia di Milano, penso a una interpretazione che Susan Sontag, morta di cancro giusto dieci anni fa, aveva dato della malattia definendola «il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa». Cittadinanza? La Sontag immaginò che la malattia fosse come entrare in un altro paese, in un’altra identità: nel regno dello star male. E in fondo è questa la ragione profonda del timore che proviamo ogni qualvolta ci si trovi in un luogo sconosciuto segnato dalla sofferenza e dal dolore estremo.
Veronesi siede nel proprio studio come rinfrancato. È appena uscito da una fastidiosa caduta. Se ci sono conseguenze non si vedono: ha un’aria elegante e rilassata, come in un primo giorno di festa, quando tutto appare sotto una luce migliore. E quel luogo dove mi riceve, costruito con le intenzioni di farne uno spazio a misura umana, dà l’impressione che quella guerra si possa anche vincere: «Lei non può immaginare cosa fosse all’inizio: si combatteva in un trucido campo di battaglia, in un lazzaretto dell’infelicità umana, in un luogo considerato dai più senza ritorno».
Intende dire che la medicina non contemplava la guarigione?
«Assai poco. Le guarigioni avevano quasi sempre del miracoloso. Non c’erano strategie certe. Il compito di un chirurgo era di limitarsi a tagliare e cucire. Si pensava che il cancro fosse una battaglia persa in partenza. Ricordo ancora lo stupore dei miei maestri e amici quando dissi che avrei desiderato occuparmi di quella branca della chirurgia e diventare oncologo».
Stupore perché?
«Perché non offriva prospettive, non era remunerativo e quasi sempre si usciva sconfitti dal confronto. Chi te lo fa fare, dicevano».
E lei decise altrimenti.
«Fu un caso. Ero al quarto anno di medicina. Mi chiesero di far pratica in qualche ospedale. Scelsi, per pigrizia, quello più vicino a casa: era l’Istituto per la cura dei tumori. Non può immaginare cosa vidi: la sofferenza, la disperazione, le tragedie familiari. I malati sembravano dei condannati a morte. Mi dissi: cosa posso fare per cambiare questa situazione? Giurai a me stesso di dedicarmi alla lotta contro il cancro».
Perché scelse medicina?
«Mi affascinava l’idea di una professione utile al punto da poter salvare una vita umana. Mi affascinavano il corpo e gli organi che lo compongono. In particolare il cervello e le sue reazioni sulla psiche. Pensai che la cosa migliore fosse diventare psichiatra. Ma quello stage in ospedale mi spinse a cambiare idea. Così, all’inizio della carriera, divenni anatomopatologo».
Di quali anni parliamo?
«I primi anni Cinquanta. Ero stato un pessimo studente liceale. Bocciato ben due volte. Non mi piaceva stare sui libri. Preferivo la campagna: sentirmi libero nella natura. La mia, del resto, era una famiglia contadina».
Suo padre cosa faceva?
«Era un fittavolo. Morì che avevo sei anni. E mia madre, da allora, rappresentò tutto per me. Penso di esserne stato innamorato. E l’attenzione che in seguito ho riversato sulle donne è scaturita da questo legame originario».
Qual era il potere di questa donna?
«Il potere della tenerezza e insieme del rigore. Era una donna molto religiosa. Mi piaceva la sua tenacia, la tolleranza, e la forza con cui declinava la sua fede».
Lo dice come se rimpiangesse qualcosa.
«Sono profondamente laico, ma quel mondo contadino aveva un fondamento nel sovrannaturale. Forse è il motivo per cui mi sono sempre interessato alle religioni».
Ha appena pubblicato un libro, con Mario Pappagallo, dedicato alle figure femminili dell’Antico Testamento. Cosa l’affascina di quelle donne?
«Direi la loro libertà. La spregiudicatezza con cui compiono certi gesti. Le donne del Vecchio Testamento sono molto moderne. Non hanno la castità come valore. Non pensano che il sesso sia peccato. È un atteggiamento che scompare con il Nuovo Testamento. Qui, anzi, di donne ce ne sono poche».
Il cristianesimo non ha esaltato il corpo delle donne?
«Per niente. Tutt’al più esse svolgono una funzione di pietas come dimostrano le donne ai piedi della Croce».
A proposito di donne lei scrive: tutta la mia vita professionale è stata declinata al femminile.
«È vero, ho curato decine di migliaia di pazienti. Mettendo a punto un sistema non invasivo per la cura del cancro al seno».
Come ha preparato questo risultato?
«All’inizio molto è dipeso dal lavoro di anatomopatologo. Ho visto passare sotto il microscopio centinaia di tumori al seno, che nelle fasi iniziali restava chiuso nel suo lobo. Il seno si compone di 12 lobi e ciascuno è abbastanza indipendente. Dunque se preso in tempo il tumore può essere asportato senza devastazioni».
Ci fu resistenza da parte del corpo medico?
«Come accade di solito davanti alla novità. La fortuna volle che l’articolo che pubblicai sul New England Journal of Medicine venisse ripreso in prima pagina dal New York Times e reputato importante dalle donne americane».
A quel punto?
«Partì la sperimentazione su un campione femminile piuttosto vasto che durò un decennio. Sapevo di poter fallire, e che il metodo creato avrebbe potuto non dare i risultati sperati. Lascio immaginare l’ansia con cui ho vissuto quel lungo periodo. Ma alla fine ho avuto ragione».
Come ha vissuto quel successo?
«C’è un comprensibile orgoglio. Ma anche la sensazione, giunto in prossimità dei 90 anni, che il nemico non è battuto. Si muore ancora troppo di cancro. Anche se non più come una volta e soprattutto al riparo dalle devastanti tragedie fisiche. Meno da quelle psicologiche».
Come vive la morte dell’altro?
«È una domanda terribile».
Provi a dare una risposta.
«È cambiata la percezione che abbiamo della morte. Nella cascina in cui vivevo da bambino capitava di veder morire un nonno o lo zio e accorgersi dell’affetto con cui i familiari e gli amici circondavano quella persona. La morte era considerata un evento naturale. Oggi, ma ormai da molto tempo, non è più così. Si muore nell’asettico spazio di un ospedale o di una clinica. La morte è evento anonimo, l’insensibile terra di nessuno, come un po’ sono diventate le nostre vite».
«Dovrebbe esserci, alla stregua degli altri diritti civili. Si chiama eutanasia».
«Sì, fa parte dell’autodeterminazione. La decisione di quando andarsene è prima di tutto nella mente del paziente».
Com’è il suo rapporto con il paziente?
«Non può esserci rapporto se non c’è dialogo. E non c’è dialogo se il medico non sa porsi in ascolto».
«È avere in mano la vita di un altro. Alcuni ne fanno lo strumento della propria edificazione. E poi c’è il potere che nasce dal riconoscimento, quando sai di aver guarito l’altro. Il guaio è, quando le cose non vanno bene, che il medico a volte sparisce».
C’è un’alternativa?
«Condividere con il malato sofferenza e gioia».
Sembra più l’atteggiamento di un cristiano che di un laico.
«Ci sono valori e sentimenti comuni, che il dolore e la sofferenza provocano».
Con quale effetto?
«Ho imparato che occorre stare nelle cose con empatia. Mi può capitare che di fronte a una tragedia possa perfino piangere di nascosto».
Ma stare così a lungo sul fronte di queste devastazioni non genera un’abitudine all’indifferenza?
«Non so cosa voglia dire abitudine di fronte a un uomo o a una donna che muoiono. So che il mio comportamento è “schizofrenico”. Ho un lato rassicurante. So bene di non poter avere l’aria affranta o distrutta quando dialogo con un malato terminale. Dall’altro, c’è una parte nascosta di me che dice che la vita è una fregatura, una sofferenza».
E come reagisce?
«La prima cosa persa fu la fede. Alcune notti mi sveglio ancora con certi volti che non riesco a dimenticare.
In quegli occhi della disperazione mi pare di leggere la disperazione dell’umanità. La vita, per definizione, non ha un grande senso. C’è troppo dolore. Ma è un dolore che ha una forma, non è alienante».
Cos’è il dolore?
«È un’espressione del corpo e della mente. Non c’è nulla di buono nel dolore. Non tempra, non eleva; anzi fa perdere lucidità e quindi va combattuto sempre».
Non basta Dio per affrontarlo?
«Decisamente no. Non c’è valore catartico nel dolore».
E i suoi valori quali sono?
«Penso sia importante fare bene il proprio lavoro. E poi c’è la famiglia. Ho una moglie e sette figli. Sono un buon antidoto al pessimismo».
Cosa le piace della famiglia?
«Per me è un modello patriarcale che dona alla vita un po’ di quella chiarezza e calore che si sono persi».
So che sua moglie, ebrea di origini turche, finì da giovane in un campo di concentramento.
«Fu rinchiusa a Bergen-Belsen, dove morì, tra gli altri, Anna Frank. Mia moglie sopravvisse, ne uscì provata, ma viva. Non ci sono parole adeguate. Quanto a me, anch’io uscii provato, in modo diverso certo, dalla guerra. Fu dura. Avevo preso parte alla Resistenza e poi saltai su di una mina restando ferito».
Dal dopoguerra a oggi ha costruito e consolidato una bella immagine di sé.
«Spero corrisponda al mio profondo sentire».
È coerente?
«Cerco di esserlo. Non sempre lo sono stato».
È narcisista?
«Lo sono ma non nel senso classico».
In quale senso, scusi, lo è?
«Quando ho una buona idea mi rallegro con me stesso. È un narcisismo intellettuale. Però non sono per niente autoreferenziale».
È libertino?
«Me lo chiede in che senso?».
È un rimprovero che sua moglie, in un libro che ha scritto, le ha mosso.
«Confesso che le donne mi sono sempre piaciute. Ma al tempo stesso penso al libertino come alla figura secentesca dell’uomo dotato di passione morale».
Cos’è per lei l’etica?
«È la linea che unisce il nostro rapporto con gli altri. Un principio che la Rivoluzione francese ha reso universale: non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te».
Se è per questo già il Vangelo perorava la causa.
«È vero, ma il Vangelo contemplava anche il perdono».
Le è mai accaduto di chiedere perdono?
«A volte sì. Ho chiesto perdono a mia moglie Susy per un figlio avuto fuori dal matrimonio, che ho poi riconosciuto. È la vita: con le sue deviazioni, i ripensamenti, le confessioni. E qualche senso di colpa».
Verso cosa o chi?
«Il lavoro mi ha portato a conoscere e combattere una malattia estrema. Quando un paziente muore ti chiedi se sei stato veramente all’altezza del compito che ti eri dato. Se hai corrisposto la fiducia che il malato aveva riposto in te».
E che risposta si dà?
«La risposta è sempre contraddittoria. Non ci si libera dalla morte degli altri. Ed è giusto che sia così. Anche se si prova un senso di impotenza. Non ricordo una morte che mi sia stata indifferente».
Ne ha paura, intendo personalmente?
«In tutti noi c’è la paura del morire. Fino a un certo punto la morte è evitabile. Ma anche necessaria. Lo dico in maniera teorica: una persona anziana ha il dovere di morire. So che il mio momento è vicino. Ma non ho istinti suicidi. A volte ci penso. Ma finisce lì. Con un’alzata di spalle. No, la morte mi è stata troppo familiare perché ne possa avere davvero paura».
Antonio Gnoli, la Repubblica 22/6/2014