Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 22 Domenica calendario

IL GRANDE MISTERO DAI SOGNI DI STEVENSON AI GIORNALI DI FLAUBERT


Una notte, una delle tante notti in cui giacque nel letto sputando sangue, febbricitante e senza fiato, Robert Louis Stevenson, aveva allora 38 anni, sognò una terrificante tonalità di marrone. Fin dalla sua prima infanzia, Stevenson aveva definito i suoi frequenti terrori notturni come «le visite dell’Arpia della Notte», che solo la voce della sua bambinaia poteva calmare con fiabe e canti scozzesi. Le apparizioni dell’Arpia della Notte, tuttavia, continuarono a ripetersi, e Stevenson scoprì che poteva trarle a suo vantaggio esorcizzandole con le parole. L’orrendo colore marrone del suo incubo si trasformò dunque in un racconto. E fu così, ci dice, che nacque la storia del Dr. Jekyll e del signor Hyde.
Gli scrittori si stupiscono quanto i loro lettori dell’esistenza di creazioni letterarie di successo. Dante, riconoscendosi colpevole del peccato di superbia, implora prima le muse e poi Apollo di ispirarlo, ma sebbene ponga queste invocazioni all’inizio del Purgatorio e del Paradiso, il lettore sente che si tratta di riflessioni successive, che i primi barlumi di quel viaggio prodigioso vengono da qualcosa di meno elevato e di molto più banale, forse dal primo giorno in cui si rese conto che non avrebbe mai più rivisto la sua amata Firenze, forse dal primo momento in cui mandò papa Bonifacio all’inferno. La storia del cavaliere errante in cerca di giustizia venne in mente a Cervantes, come egli racconta, mentre l’autore languiva ingiustamente in prigione; il racconto delle tragiche conseguenze, per Madame Bovary, del sogno di una vita diversa fu ispirato a Flaubert, si dice, dalla lettura di un articolo di giornale. Bradbury spiega che i primi indizi dello spaventoso mondo di Fahrenheit 4-51 si affacciarono nella sua mente nei primi anni Cinquanta, dopo aver visto una coppia camminare mano nella mano su un marciapiede di Los Angeles, ciascuno intento ad ascoltare la sua radiolina con l’auricolare.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il momento della creazione letteraria ci è sconosciuto quanto quello dell’universo. Siamo in grado di studiare ogni istante dopo il Big Bang perché possiamo leggere (gli scrittori una volta le conservavano) ogni stesura di un libro come A la recherche du temps perdu o le varie versioni dell’ Amleto , ma il momento della nascita della maggior parte dei nostri libri più amati è ancor più misterioso. Che cosa fece balenare la prima idea dell’ Odissea o dell’ Iliade nella mente del poeta o dei poeti che noi chiamiamo Omero? Come ha fatto un narratore, incurante di metterci il suo nome, a ideare l’atroce storia di Edipo che avrebbe poi ispirato Sofocle e Cocteau? Quale triste amante in carne e ossa ha prestato il suo carattere all’irresistibile figura di Don Giovanni, dannato per l’eternità? Dovremmo leggere la dichiarazione dell’evangelista Giovanni, «in principio era il Verbo », come una confessione d’autore? E se sì, quale era quella magica parola iniziale?
Le confessioni degli autori raramente suonano veritiere. Edgar Allan Poe spiegò, in un lungo saggio, che Il corvo nacque dall’intenzione di scrivere una poesia su quello che lui giudicava «senza dubbio, l’argomento più poetico del mondo», la morte di una bella donna, utilizzando per il suo ritornello le sillabe più risonanti della lingua inglese, ere ore. Le parole never e more (“ mai – più”) si suggerirono subito per il ritornello e, per fare in modo che potessero essere ripetute, scelse non una persona, ma un uccello in grado di pronunciarle: non un pappagallo, poco poetico ai suoi occhi, ma un corvo, più consono al suo cupo immaginario. La spiegazione di Poe è logica, presentata in modo brillante e del tutto incredibile.
Forse dovremmo accontentarci di ammettere che i miracoli sono possibili, senza chiederci come. E poiché crediamo ancora nella relazione di causa ed effetto, pretendiamo una spiegazione per ogni cosa: vogliamo sapere come sia avvenuta, che cosa abbia permesso che accadesse, quale fu il primo battito del cuore che mise in movimento la bestia, da dove venga questa cosa che ora abbiamo davanti.
Fortunatamente per noi, fortunatamente per la sopravvivenza dell’intelligenza umana, gli abomini si possono spiegare, anche se forse troppo tardi per porvi rimedio, attraverso l’analisi storica e psicologica. Altrettanto fortunatamente, per le creazioni letterarie non è così. Possiamo venire a sapere ciò che un autore ci dice sulle circostanze che circondano l’atto della creazione, che libri ha letto, quali fossero le minuzie quotidiane della sua vita, il suo stato di salute, il colore dei suoi sogni. Tutto, tranne l’istante in cui le parole apparvero, luminose e distinte, nella mente del poeta, e la sua mano cominciò a scrivere: «Nel mezzo del cammin di nostra vita...» (Traduzione di Luis E.
Moriones).

Alberto Manguel, la Repubblica 22/6/2014