Mario Serenellini, la Repubblica 22/6/2014, 22 giugno 2014
JIM JARMUSCH
PARIGI
I folti capelli schizzati in una bianca fiammata, lo sguardo azzurro, le labbra carnose e golose da giovane dandy, a sessantun anni Jim Jarmusch assomiglia sempre più ai personaggi del suo cinema, derive interiori sull’onda di Byron, Schubert, Twain. Traspare una malinconia solitaria. La stessa lebbra psicologica del Johnny Depp di Dead Man, del Forrest Whitaker di Ghost Dog o del Tom Hiddleston di Solo gli amanti sopravvivono, rilettura chic e rock del mito del vampiro (ora nelle sale italiane, mentre in Francia il festival Champs-Elysées lancia il suo making of, Travelling at Night).
L’incontro è a Parigi, dopo un concerto a La Machine del suo gruppo, gli Sqürl. Appuntamento al piano inferiore di un hotel su Saint Germain-des-Prés cui Jarmusch, con quella sua silhouette elegante, d’angelo rock e aristocratico alieno, incolla subito un’aria di cripta. Le sue prime parole sono per quelli che erano con lui fino a ieri, all’altro ieri, e l’hanno, negli anni, lasciato: Joe Strummer, Screamin’Jay Hawkins, Jean-Michel Basquiat, William Burroughs, Jeffrey Lee Pierce, Andy Warhol…. «Non mi capacito del numero di amici falcidiati uno dopo l’altro. Anche Lou Reed. Che tristezza». Da sempre diviso tra session e set, il regista americano sta lavorando a un documentario («Ho già registrato un’intervista fiume») su Iggy Pop, compagno di strada della prima ora: «È uno dei tanti artisti che hanno dovuto ingegnarsi con delle scappatoie per sopravvivere. È così fin dai tempi di Bach, che non riuscendo a produrre abbastanza musica originale per sfamare la famiglia numerosa compose le celebri Variazioni attorno a uno stesso tema: un tesoro nato da necessità pratiche». Il rock attuale è una variazione stagionata della prima generazione? Un dissanguato vampiro, come il rocker plurisecolare di Solo gli amanti sopravvivono ? «Appartengo alla generazione che ha inventato l’hip hop e sarei proprio curioso di sapere a chi potrebbe somigliare un rapper vegliardo. I suppposti “nonni del rock” continuano a impressionarmi: Tom Waits, Neil Young e anche Bob Dylan. Straordinari. Mentre gli Stones…». Waits e Young sono stati suoi complici negli anni Ottanta-Novanta. «Siamo tutti figli della scena newyorchese di fine anni Settanta, dissidente, romantica, aperta a ogni forma d’espressione. Ci sentivamo un po’ fuorilegge, in sotterranea comunione con i poètes maudits dell’Ottocento, da cui prendevamo in prestito anche i nomi: Tom Verlaine, Amos Poe, Richard Hell. Eravamo una banda, dove nessuno si poteva rinchiudere in un format: Patti Smith dipingeva, scriveva e collaborava con Robert Mapplethorpe, Alan Vega scolpiva, Basquiat faceva il dj. Io gravitavo attorno a musicisti “minimalisti” — Ramones, Talking Heads, Television — per i quali la tecnica era meno importante dell’istinto. Burroughs era il tuttofare: individuava parentele, affinità e celebrava neo-connubi tra le arti. Erano gli anni in cui progettavo di diventare o poeta o chitarrista, non regista».
E invece, quarant’anni dopo, oggi Jim Jarmush è per tutti, e prima di tutto, uomo di cinema. Anzi, è un’idea di cinema, l’altra America, quella a est di Hollywood, quella di John Cassavetes, Amos Poe, Hal Hartley. L’American Dream al rovescio, come in Dead Man, 1995, trip psichedelico nel vortice della chitarra elettrica di Neil Young dentro un west sporco e malato. O come in Stranger than Paradise , dell’84, on the road della perdita e del disincanto, girato con gli scarti di pellicola de Lo stato delle cose di Wenders. Chi o cosa l’ha dirottata sul cinema? «Mia madre è la responsabile. O, meglio, la mancanza di una babysitter. Abitavamo ad Akron, cittadina industriale dell’Ohio. Mia mamma era un’invasata di cinema, una che scriveva cine-cronache per il giornale locale (aveva anche intervistato Humphrey Bogart, un volta che era passato da lì), e mi depositava ogni weekend in una sala del centro, lo State Theatre: doppia programmazione, cinema di genere, serie B. È stato il mio latte d’infanzia: titoli, oggi di culto, come L’attacco dei granchi giganti di Roger Corman o Il pianeta proibito di Fred M. Wilcox, senza contare le orde di vampiri della Hammer con Christopher Lee e Peter Cushing, probabile spinta al mio ultimo film». Dalla magia infantile della sala buia alle scuole di cinema il passo è breve: «Nel ’73 venni nove mesi a Parigi per una ricerca su Breton e i surrealisti. Fu allora, credo, che scoccò la scintilla. Frequentando assiduamente la Cinemathèque, ho davvero scoperto il cinema: è qui che ho visto per la prima volta un film di Samuel Fuller e ho conosciuto i nostri autori attraverso gli scritti teorici della Nouvelle Vague, Rivette, Truffaut... Tornato in America, mi laureo in letteratura alla Columbia University, e poi mi iscrivo alla Graduate Film School della NY University da cui esco senza diploma ma con il mio primo film, girato nel ‘79 con i soldi della borsa di studio, su un viveur della Big Apple che fugge a Parigi in cerca di felicità». Poi c’è stata l’università Benigni... «Roberto! », s’illumina Jarmusch. «Ci siamo conosciuti trent’anni fa, a un piccolo festival a Salsomaggiore: eravamo in giuria, non sapevamo niente l’uno dell’altro, ci scambiavamo, in simil-francese, amori di cinema e letteratura. Io adoravo l’Ariosto (in Mistery Train, 1989, Nicoletta Braschi ha sottobraccio l’ Orlando Furioso , ndr ). Lui era già preso da Dante. Nacque una grande amicizia. A Roma sono stato suo ospite nella casa sull’Aventino durante le riprese de La voce della luna : facevamo finta di studiare, io l’italiano, lui l’inglese, ma soprattutto mi portava sul set, mi fece conoscere Fellini e scoprire Roma». Da parte sua Benigni gli deve tre scalpitanti trasferte americane: Daunbailò nell’86, con gli exploit di carcerato in cella insieme a Tom Waits e John Lurie; Taxisti di notte , nel ‘92, cinque corse in altrettante metropoli, da Los Angeles a Roma (dove Benigni alluviona d’esuberanza blasfema un boccheggiante cardinale); e infine Coffee and Cigarettes, l’ex-corto improvvisato con amici, allungato nel 2002 a durata commerciale. «Per Daunbailò era stato tre mesi da me a New York, diventando anche molto amico di Tom Waits. So che poi, in un’iperbolica master class al Tenco di Sanremo, Roberto aveva dissertato dottamente non solo sul rock ma anche sulla pizza americana, piatta e larga come un sombrero, “specialità” obbligata delle nostre nottate, incubo per qualsiasi italiano».
In Daunbailò si fuggiva dall’ingiustizia della prigione, in Solo gli amanti sopravvivono si fugge dall’ingiustizia della vita, dal suo logoramento quotidiano, dai limiti di tempo e luogo. «Tilda Swinton, per la quale ho realizzato il film, mi ha fatto osservare che in realtà tutto il mio cinema è fatto di vampiri e che io sono uno di loro: outsider, figura dell’ombra, vita di notte. Ai vampiri invidio l’estensione della conoscenza, la vastità di esperienze, la profondità di sentimento, dovute a secoli o millenni d’esistenza». Tentato dall’immortalità, ventilata anche nel suo disco del 2012 con Josef Van Vissem, Concerning the Entrance into Eternity ? «No, l’eternità non fa per me. Magari qualche annetto di più, certo, sì. Ma che non sia per sempre. Se fossimo immortali, che voglia avremmo di far qualcosa nella vita, di incontrare gli altri, di avventurarci nel nuovo? Con tutto quel tempo davanti…». E allora come la mettiamo con gli amici che ci lasciano troppo presto e per primi? «Vorrei raggiungessimo tutti lo spirito di accettazione di William Blake, il poeta di Dead Man. A chi gli chiedeva, ormai vecchio, come si disponesse alla morte, lui rispondeva: sarà come alzarsi e andare in un’altra stanza».
Mario Serenellini, la Repubblica 22/6/2014