Riccardo Luna, la Repubblica 22/6/2014, 22 giugno 2014
MR. ARDUINO YES WE CAN
«Pronto? Sono io».
Quando mercoledì scorso mi ha telefonato dalla Casa Bianca ho ripensato alla prima volta che lo avevo sentito nominare. «Tu conosci Massimo Banzi, no?». Certo che non lo conoscevo. Era il 2008 e stavo parlando con il direttore di Wired, Chris Anderson, quello della teoria della coda lunga. Lui sì che era un mito. «Banzi, chi?». Ricordo che corsi a cercare la sua biografia su Wikipedia ma non trovai nulla. Allora per scrupolo cercai nella versione inglese e lì invece c’era tutto: “Il cofondatore di Arduino, il padre dell’hardware opensource”. Queste definizioni non mi aiutarono — chi diavolo era Arduino? Quanto all’hardware open source, ai tempi per me era una formula esoterica. Ma rimasi stupito di apprendere che la voce “Massimo Banzi” su Wikipedia c’era in tutte le lingue del mondo. In tutte, tranne che in italiano.
«Mi senti? Qui non c’è il wifi e nemmeno il 4G, pensa te… È appena arrivato il presidente. Sì, Obama. Ha parlato quindici minuti. Ha detto che ci ha invitati qui per celebrare l’era dei makers ». I makers: quelli che fanno le cose. La voce di Massimo è adeguata alla stazza. È imponente, con una barba chiara, gli occhi vispissimi e gira sempre, anche oggi che ha 45 anni, con una grande borsa a tracolla come se andasse ancora a scuola. A scuola ci andava, in Brianza, istituto tecnico. Gli piaceva smanettare e trovò un bravo prof che ne assecondò il talento. All’università si iscrisse a ingegneria ma non la finì mai: «Si facevano troppe slide e pochi progetti». Se li mise a fare lui i progetti. Per un po’ ha fatto l’investitore a Londra, dove ha imparato l’ottimo inglese con cui oggi gira il mondo, poi è tornato in Italia per lavorare a ItaliaOnline. Erano gli albori del web, 1994, e ItaliaOnline, ricorda, l’ha praticamente tirata su lui con un gruppo di coetanei. Buffa la vita: IOL era del gruppo Olivetti guidato allora da Carlo De Benedetti. Banzi era l’ultimo dei dipendenti e se ne andò sbattendo la porta perché si sentiva sottopagato. Vent’anni dopo è diventato il presidente della Fondazione creata da De Benedetti per sostenere la terza rivoluzione industriale: Make in Italy. Merito di Arduino. Già Arduino. Cosa sarà mai? Me lo chiedono ancora in tanti. Dieci anni dopo che è stato inventato, dopo che ha conquistato il mondo diventando una “piattaforma” per inventori. Se il successo di una cosa si misura dal numero di imitazioni, allora Arduino vale la storica Settimana Enigmistica. Senza entrare nel tecnico, un Arduino è una piccola scheda elettronica ( micro controller) che serve a far compiere un’azione a un oggetto. A dargli vita. Il nome viene dal bar dove Banzi si trovava con un gruppo di studenti della Scuola di interaction design di Ivrea: Gran Caffè Arduino, si chiamava, come un celebre re dell’anno Mille. L’idea era quella di creare qualcosa facile da programmare e a basso costo che consentisse ai ragazzi di fare dei prototipi “vivi”, funzionanti. Arduino è partito così, come un progetto per studenti, ed è arrivato alla Casa Bianca. Perché? La risposta migliore la diede lo stesso Banzi intervenendo al TED: «Perché da oggi non avete bisogno del permesso di nessuno per inventare delle cose fantastiche». Il diritto di inventarsi il futuro. Questa stessa storiella Banzi la raccontava due settimane fa allo staff del ministro dell’Istruzione. Posso garantire dello stupore e dell’attenzione dei presenti: «Portiamo Arduino in tutte le scuole!» ha detto qualcuno alla fine. Banzi ci spera ovviamente: spera in una rivoluzione della scuola italiana sul modello di quello che accade in tanti altri paesi: «Invece di insegnare cose astratte, insegnate a fare progetti». Projectbased learning. In America, per esempio, Obama sostiene che i ragazzi non devono soltanto scaricarsi un’applicazione dal telefonino, ma inventarne una e così via. «In Spagna, con l’aiuto di Telefonica, facciamo corsi di elettronica e fabbricazione digitale ai docenti che a loro volta fanno progetti in classe. Le statistiche dimostrano che gli studenti sono più felici e si impegnano di più. Senza una scuola adeguata crolla tutto. Se invece rimettiamo in moto queste energie, riparte l’Italia che è sempre stata una nazione di makers, di artigiani e piccoli inventori».
Con l’Italia Massimo ha un rapporto ambivalente. Detesta il pressappochismo della politica e l’atteggiamento disfattista o paraculo di tanti. Ma sulle schede di Arduino c’è stampata la scritta “made in Italy”. Vale la pena di raccontare un episodio di qualche giorno fa: il presidente di Google, Eric Schmidt, era a Roma per un incontro istituzionale e ha chiesto di poter vedere Banzi a pranzo. «A tavola è iniziata la solita litanìa degli italiani che parlano male dell’Italia e non ci ho visto più. Abbiamo delle potenzialità incredibili, basta lamentarsi». Obama ha invitato Banzi in occasione della prima Maker Faire ospitata alla Casa Bianca. Tutti gli ospiti sono usciti con una pergamena col sigillo d’oro del presidente dove c’è scritto che se non ricominciamo a inventare e produrre cose, non usciremo dalla crisi e non creeremo nuova occupazione. «Parole che puoi trasferire pari pari all’Italia». Adesso Massimo è impegnato a trasformare Arduino in una vera azienda: «Con veri manager così che io possa occuparmi solo dei prodotti. È dura, perché siamo cinque soci fondatori sparsi in tutto il mondo e per molto tempo ci siamo mossi come una no profit». Arduino, va detto, è un progetto open source e tale intende restare: è aperto, il codice delle sue schede è pubblico e copiabile. La sua forza è la community mondiale che lo ha adottato, che sviluppa progetti meravigliosi e li condivide in Rete. Il suo segreto sta nei suoi fondatori. Hanno cercato di fare una “cosa” utile agli altri. E ci sono riusciti.
Riccardo Luna, la Repubblica 22/6/2014