Federico Rampini, la Repubblica 22/6/2014, 22 giugno 2014
C’È ANCORA TANTO DA LEGGERE
[Intervista a Bob Silvers] –
NEW YORK
«Quando dissi al mio direttore da Harper’s che andavo a lavorare in una rivista nuova, mi rispose: buona fortuna, sono certo che ti divertirai, e tra un mese sarai di ritorno qui fra noi». Ride di gusto, come se raccontasse questo aneddoto per la prima volta, Bob Silvers. Accadeva cinquantuno anni fa. L’anno scorso la rivista che lui fondò, e che dirige tuttora all’età di ottantaquattro anni, ha celebrato il suo cinquantenario. È un exploit prodigioso, quello della New York Review of Books , fenomeno unico per tanti aspetti. Dalla nascita, ha avuto l’umiltà di non far mai scrivere i propri redattori: tutti gli articoli sono affidati a firme esterne. E che firme! Da Saul Bellow a Truman Capote, da Gore Vidal a Norman Mailer, da Mary McCarthy a Susan Sontag, i grandi della letteratura americana si sono cimentati con queste “recensioni”, a volte stroncature feroci, sempre dei pezzi di bravura, a volte più godibili dei libri stessi di cui si occupavano. E poi scienziati, filosofi, economisti, politici, studiosi di belle arti, cultori del cinema: la Review è diventata un concentrato della cultura contemporanea, ben oltre i confini della sfera angloamericana. È stata un santuario di libertà d’espressione per i dissidenti perseguitati nel mondo intero, dall’Unione sovietica alla Cina. La collezione di questa rivista non è solo un’antologia di letteratura e saggistica, include i film più importanti, le esposizioni d’arte che ci hanno segnato, i grandi temi del dibattito politico. Più i reportage d’autore, romanzieri e giornalisti affermati che hanno scritto dal fronte del Vietnam o dell’Afghanistan. Infine, la Nyrb è stata spesso una palestra di opposizione e di resistenza verso le avventure imperiali dell’America. Incontro Silvers nella sua sede, al numero 435 sulla Hudson Street, Greenwich Village, mentre esce il documentario di Martin Scorsese sull’avventura della rivista.
Nell’èra di Twitter, della comunicazione sincopata, ridotta a sillabe e esclamazioni, voi rappresentate il polo opposto nell’esperienza di lettura. Con rigore implacabile, “infliggete” ai vostri lettori articoli di lunghezza sterminata. E noi lettori non ci stanchiamo mai, tant’è che continuate ad avere più di centomila abbonati. La vostra prima ragione sociale è il libro, e ci annunciano che il libro sta morendo. O no?
«Certamente sta per essere sostituito il libro di Gutenberg, un oggetto che ha vissuto per cinquecento anni. È un terremoto quello che sconvolge l’industria editoriale. Noi stessi stiamo trasformando l’equilibrio dei nostri contenuti e della nostra offerta, il nostro sito è sempre più ricco, i nostri blogger hanno un seguito importante. E quando la Cia ha cominciato a usare Twitter, noi abbiamo risposto… con una serie di tweet in cui denunciavamo, 140 caratteri alla volta, ciascuno dei metodi di tortura usati a Guantanamo, in base al rapporto della Croce rossa internazionale. Il successo fu tale che il nostro sistema informatico andò in tilt per il boom di contatti. Al tempo stesso, è vero, la nostra edizione cartacea continua a piacere ai lettori e ha tanti abbonati».
Ma tornando al libro, è davvero possibile che un giorno non esistano più gli editori?
«Sull’ultimo numero della Review abbiamo un’intera sezione dedicata al tema del potere. Tra quegli articoli spicca la recensione di un libro su Jeff Bezos, fondatore e padrone di Amazon. La visione di Bezos è chiara: tutto finirà online e tutto finirà… dentro Amazon (altra risata, ndr). Siamo nel mezzo di una turbolenza e non vediamo ancora il punto di approdo. Cinquanta sfumature di grigio uscì prima online senza un editore, poi lo trovò. E allora sì, certo, potremmo vivere in un mondo dove ci saranno ancora gli autori ma non più gli editori, sarà possibile scrivere e raggiungere un pubblico mondiale senza quell’intermediario tradizionale. Attenzione, però: per un libro come Cinquanta sfumature ce ne sono migliaia che falliscono e non raggiungono mai il pubblico».
La Review è stata la palestra per eccellenza dell’intellettuale pubblico americano. Avete allevato generazioni di intellettuali impegnati nel dibattito politico e culturale. Com’è cambiata questa figura?
«All’epoca in cui nacque la rivista c’erano più intellettuali indipendenti. Oggi sono rari, la maggior parte degli intellettuali dipendono da organizzazioni come le grandi università e i think tank. Questo è un cambiamento profondo. Oggi abbiamo un vasto mondo di intellettuali semi-ufficiali, nel senso che prima o poi hanno avuto o avranno responsabilità governative o industriali. Col sistema delle “porte girevoli”, vanno e vengono tra accademia, Dipartimento di Stato, Tesoro, centri studi ricchi di finanziamenti, grandi aziende. Noi continuiamo ad andare alla ricerca di quell’animale raro: l’intellettuale indipendente, che va a briglia sciolta, che non gioca sul sicuro. L’indipendenza è il valore a cui teniamo di più, non vogliamo essere legati a partiti, gruppi, tendenze».
La rivista è sempre stata un barometro dello stato d’animo dell’intellighenzia progressista verso i presidenti americani. Non avete una “linea” unica, certo, però su Obama è chiaro un filo conduttore che lega gli interventi dei vostri autori. Lo avete sostenuto su riforma sanitaria e diritti dei gay, lo attaccate su Guantanamo e sullo spionaggio della Nsa. Ora è sotto tiro per aver “perduto l’Iraq”, secondo la tesi dei neocon tornati in auge. La destra sembra più compatta nell’offensiva, mentre la sinistra è indecisa, ondivaga, sul da farsi in Medio Oriente.
«Sì, perché da una parte abbiamo visto troppe volte gli interventi americani all’estero concludersi con dei disastri; e al tempo stesso chi è guidato da valori etici a volte sente l’imperativo di un intervento umanitario. L’Iraq è un crocevia importante. Nel 2003 molti anche tra i progressisti giudicarono doveroso rimuovere Saddam Hussein. Noi no, fummo contrari fin dall’inizio a quella guerra, perché davamo ascolto a quel che diceva lo svedese Hans Blix, il capo degli ispettori Onu, molto dubbioso sulla presenza di armi di distruzione di massa. Rivelammo anche dei retroscena inediti, degli scoop sui contatti segreti fra Blix e l’allora segretario di Stato Colin Powell. Anche questo fa parte della nostra vocazione: giornalismo investigativo».
Dagli articoli di Krugman allo spazio che date a un personaggio nuovo della sinistra come Elizabeth Warren, negli ultimi numeri s’intuisce un’attenzione crescente al tema delle diseguaglianze nell’America postcrisi...
«È una questione di enorme rilevanza. Ancora trent’anni fa in America avevamo una distanza più ridotta, fra l’1% dei privilegiati e la middle class. Gli effetti delle diseguaglianze non sono solo economici e sociali. Sta franando un intero terreno comune che era tipico della società americana. L’accesso alla conoscenza, all’istruzione, alla cultura, diventa sempre più costoso. E con questo si distrugge quella mobilità sociale che era stata una delle caratteristiche della nazione».
Federico Rampini, la Repubblica 22/6/2014