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 2014  giugno 22 Domenica calendario

DUE O TRE COSE CHE SO DI NOLE DJOKOVIC


Ho visto per la prima volta Novak Djokovic in casa di Riccardo Piatti, a Como. Si celebrava, il 2 agosto, il compleanno di Rocco, ben noto per esser diventato, tre anni più tardi, il campione mondiale under 4. Il ragazzo che mi fu presentato da Riccardo era giovanissimo, forse meno di diciott’anni, aveva un’aria spigliata, e come gli rivolsi un benvenuto in inglese, rispose pronto in italiano. «È di Belgrado — mi spiegò Riccardo — e penso di allenarlo, insieme a Ljubicic». Rimasi perplesso, ricordando che Ljubo era stato costretto a prendere l’ultimo aereo da Banja Luka, prima di arrivare da emigrato a Como, ed essere aiutato da Riccardo.
Fu un mio allievo, Riccardo, come me erede di famiglia tessile comacina a memoria d’uomo, e addirittura da me svezzato con la racchetta, senza riuscire a diventare più che un modesto tennista. Forse per questo, mi dico, è diventato uno dei primi coach del mondo, non si è rassegnato a esser stato un piccolo giocatore. Vidi poi in gara quel giovane serbo, e come incontrai Riccardo gli dissi «questo diventa come Ljubicic». E lui: «Anche meglio, ma non so se continuerò a aiutarlo». Non chiesi oltre, perché,
nel mio mestiere, bisogna fare attenzione a quello che è pubblico e privato. Tirai una Olivetti Lettera 22 addosso a un cosiddetto giornalista, a New York, il giorno in cui spiegava che fosse un imperativo del mestiere denunziare la verità e, nel caso, il contagio da Aids del mio amico Arthur Ashe, tradito e poi ucciso da una trasfusione avvelenata. Mi incuriosì, tuttavia, la ragione per la quale il giovane fenomeno non venne più assistito da Piatti, e credetti di rintracciarla — non ne sono sicuro — nell’eccesso di un collettivo che aveva preso a circondare Djokovic via via che si affermava. Forse, mi dissi, il ragazzo necessita di mamma e papà, fratelli e cugini, coach e sparring partner , fisioterapista e accordatore. Forse è già certo di diventare grande, e imita inconsciamente i Lendl e i Becker. E, guarda caso, me lo ritrovo a cinquanta metri da dove sto scrivendo proprio con Becker, oggi allenatore personale di Djokovic, invecchiato, in tribuna. Sebbene rimanga a chiedermi quale utilità possa avere un ex tennista istintivo, giocatore di poker più o meno fallito.
Ma torniamo indietro, alle affermazioni di Novak ormai chiamato Nole, ai suoi esordi di bambino sotto le sciagurate bombe della Nato, a una maestra che tutti vorrebbero aver avuto, Jelena Gencic. Un’ex tennista curiosamente colta, e psicologa, che vide il piccolo con le manine serrate alle reti metalliche di un campo a Kopaonik, una località montana dove i Djokovic possedevano una pizzeria. Lo vide e capì, con l’intuizione di un monaco buddista alla ricerca del Dalai Lama, che quel bambino possedeva qualità divine.
Il giovane Djokovic, concedendomi l’improvvisa fiducia che non è insolita tra chi abbia praticato lo stesso sport, e soprattutto ci abbia passato una vita, mi avrebbe subito confidato di voler imitare nientemeno che Pete Sampras, la divinità tennistica dei suoi anni d’asilo. Mi informò infatti che, alla vista di Sampras, di fronte al televisore di casa, nella paterna pizzeria del suo paesello, aveva deciso, con infantile ispirazione, di diventare eguale all’immagine dell’uomo che gli giungeva via satellite, e insomma, in qualche modo, dal cielo. Continuò raccontandomi, con tutta la fiducia che spesso i giornalisti non meritano, l’acquisto di una racchettina dai colori dell’arcobaleno, e di alcune palline di gomma, con le quali giocava ore e ore, fronte al muro della pizzeria. Storia che mi venne subito da accostare a molti altri bimbi divenuti poi famosi, da René Lacoste, il cui papà aveva dovuto addirittura far ridipingere il muro della villa avita, al piccolo Lew Hoad, che era perfino riuscito nell’impresa di rendere ondulata la porta in latta del garage di casa, in Australia.
Il bimbo crebbe via via sino a diventare, nel 2005, il primo under 18 tra i primi cento giocatori professionisti del mondo, e a diciannove anni il primo under 20, con la prima finale Slam perduta contro Federer allo Us Open. A ventitré divenne un eroe nazionale conducendo il suo nuovissimo paese alla vittoria in Coppa Davis, nel 2011 si issò per la prima volta a n.1 mondiale mancando di poco il Grand Slam (cioè il poker dei quattro maggiori torni del mondo) con sole (!) tre vittorie. E, nel 2012 divenne, dopo Federer, il primo capace a rimanere tale per due anni consecutivi.
Curiosamente, fermandomi qualche settimana fa all’aeroporto di Heathrow, mi son trovato davanti un libro che ne riportava l’effige, e l’ho acquistato. Narrava più o meno la storia che conoscevo superficialmente, con un titolo dal duplice significato, Serve to win , e cioè un “servizio per vincere”, o anche “essere utile per vincere”. L’epigrafe, infatti, era firmata da chi di tennis fu soltanto spettatore, e recitava “Ci guadagniamo da vivere con ciò che facciamo, ma ci costruiamo una vita con ciò che diamo“, Winston Churchill. Questo titolo, Serve to win ( tradotto nell’edizione italiana di Sperling & Kupfer in Il punto vincente), per prima cosa mi era venuto in mente dopo la finale vinta da Nole a Roma in maggio, contro il suo tradizionale avversario Rafa Nadal, col quale, duello omerico, già si era incontrato quarantuno volte, prima di raggiungere la quarantaduesima quindici giorni più tardi, al Roland Garros. Mi era venuto in mente perché, all’entusiasmo del pubblico romano, Nole avrebbe fatto seguire una umana richiesta d’aiuto, per gli alluvionati jugoslavi (parola che non mi scappa a caso). Ha detto infatti il tennista, ma prima del tennista l’uomo, a Parigi: «Ho donato i 150mila euro di premio, dopo che avevo seguito giorno per giorno le news sull’alluvione nel mio Paese». Aggiungendo: «Lo chiamo il mio Paese, perché non mi sarei mai aspettato, dopo anni di guerra, che Bosnia, Serbia e Croazia si ritrovassero solidali in un disastro non dissimile dai disastri bellici passati. Non sto dicendo che dovremo appartenere alla stessa nazione, ma spero tanto che una solidarietà, un’umanità simile continui per sempre».
Nel libro che ho acquistato, Djokovic non parla soltanto della sua infanzia, dei suoi maestri, dei parenti, e accenna alla sua compagna Jelena Ristic, che gli ha dato un bambino. L’aspetto curioso del libro è l’incredibile importanza dedicata all’alimentazione, secondo Nole la principale causa dei risultati che lo hanno spinto verso il Number One. Entra in gioco, in simile vicenda nutrizionistica, il Dottor Cetojevic, che, dopo un’anamnesi, si è convinto e ha convinto Nole che il glutine, e cioè la “colla“ contenuta in cereali come frumento, segale e orzo, gli era più nociva del dritto di Nadal. Dopo qualche scettico tentativo, Djokovic avrebbe finito per credere che la dieta anti-glutine lo rendeva «più lucido nel pensiero, e positivo nell’emotività».
E quindi questo figlio di pizzaioli avrebbe rinnegato le proprie origini alimentari, senza che il Dottor Cetojevic, che psicologo non era, pensasse minimamente a spiegazioni freudiane. Poiché sono io stesso un dilettante, semplice lettore di Freud, mi sono deciso, con qualche riluttanza, a chiedere a Djokovic, durante le pubbliche conferenze stampa che i miei più brillanti colleghi spacciano per interviste, se pensava che una dieta potesse condurmi alfine a un successo letterario, successo invano perseguito da quando fallii come tennista. Simile domanda ha forse giustamente provocato l’ilarità generale, soprattutto quando Djokovic, con il suo straordinario humour, ha risposto «senza glutine prenderai il Nobel, caro Gianni».
Mentre pensavo ormai di iniziare una dieta che mi avrebbe certo condotto a notorietà internazionale, doveva verificarsi, contro un’altra mia ipotesi e le vivissime speranze di Nole e del suo intero Paese, la sua, per certi versi sorprendente, sconfitta contro l’ormai storico avversario Rafa Nadal, nell’ultima finale del Roland Garros, in quello che è divenuto il duello omerico contemporaneo. Nel rivedere, com’è tipico del mestiere, le quarantadue partite tra i due primi tennisti del mondo, mi ero reso conto di un curioso particolare sfuggito agli statistici, e cioè di una ripetitività divisa in quattro blocchi, l’ultimo dei quali, di quattro match consecutivi, era a favore di Nole. Mi avventurai allora, dopo aver osservato i match eliminatori, in un pronostico favorevole a Djokovic, immaginando che il suo tradizionale avversario maiorchino stesse ormai pagando gli eccessi di fatica di una carriera che gli ha compromesso l’uso di un ginocchio, reso agibile soltanto da continue infiltrazioni. Ma, dopo un avvio di partita che aveva seguito le mie sibilliche previsioni, doveva verificarsi un improvviso ribaltamento tattico, che avrebbe non solo sorpreso l’osservatore, ma anche il campione cui è dedicata la nostra attenzione. E il sorprendente Nadal avrebbe fatta sua la quarantaduesima partita.
Non è facile, anche per lo specialista di una professione, com’è Djokovic, giungere a un’analisi oggettiva, specialmente nelle ore che seguono una sconfitta, e la sua giustificazione di fronte a una platea di scribi affrettati, e privi del tempo di riflettere. Nelle equilibrate risposte di Nole, si introduceva, e non certo per scusa, una perplessità riguardo alla condizione fisica, che era parsa brillante per tutto il corso del torneo. Nel suo buon inglese, una delle cinque lingue in cui si esprime con dignità, avrebbe ammesso di essersi sentito fisicamente a disagio nel corso di un terzo set che avrebbe rappresentato la svolta decisiva del match. Ma non avrebbe saputo approfondirne le ragioni. In assenza del Dottor Cejotovic, confermate le certezze della dieta quotidiana, mi sono domandato se, tra tutti i collaboratori dello staff di un campione non fosse ormai il caso di inserire un analista. Freud non si era certo segnalato nella qualità di tennista. Però aveva giocato a tennis.
Porterò con me a Wimbledon queste note, da domani, per sottoporle a Djokovic, in attesa di una riedizione ampliata delle sua biografia.
Dopo il mio Nobel, va da sé.

Gianni Clerici, la Repubblica 22/6/2014