Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 22 Domenica calendario

QUALCUNO GUARDÒ SUL NIDO DELLE AQUILE (IN STREAMING)


Su internet qualche giorno fa è andato in scena un dramma con delle aquile testabianca. La scena era un grosso nido in qualche parte del Minnesota, di fronte a una webcam che da due anni trasmette in streaming la vita di quegli uccelli. Forse stavate guardando anche voi. O magari eravate passati a un’altra delle centinaia di telecamere installate in tutto il globo per trasmettere in tempo reale le attività di orsi polari, colibrì, leoni marini, lupi, meduse, gru americane, anatre sposine. Queste webcam non mostrano i tipici e petulanti video virali di animali per cui è famosa Internet — minuscoli criceti che mangiano minuscoli burritos — ma un peculiare genere di documentario naturalistico, senza voce narrante e senza montaggio. Tutto quello che offrono è un flusso continuo: animali che fanno quello che gli capita di fare. Cioè, il più delle volte, non un granché. Un bisonte sta in giro nel Saskatchewan, un castoro dorme nella sua diga. Ogni attimo di azione — ogni colpo che un grizzly dà a un salmone in Alaska — è compensato da ore di noia e bighellonaggi.
Passiamo le giornate su un Internet fatto di quiz, titoli di notizie, polemiche, pornografia. Eppure, molti di noi amano tenere in una scheda del browser un mucchio di pulcinelle di mare. L’EagleCam di Decorah — installata vicino a un nido di aquile in Iowa nel 2007 e considerata l’iniziatrice del nuovo genere — ha circa cento milioni di visualizzazioni all’anno. Guardare gli animali nel loro habitat naturale forse riduce la solitudine della vita d’ufficio. Oppure è un atto Zen. O è voyeurismo. Non sono sicuro. In ogni caso il caso dell’aquila testabianca in Minnesota è cominciato così: un giovedì sera di maggio, gli spettatori della EagleCam gestita dal Programma selvaggina protetta del Dipartimento risorse naturali dello Stato hanno notato che uno dei tre aquilotti era immobile. Sembrava soffrire. Gli aquilotti testabianca sono teneri, ma certo non carini: hanno ali e zampe ingombranti e sproporzionate che si contorcono. Comunque il pubblico della EagleCam si era affezionato ai piccoli: molti, dopo tutto, li seguivano da quando le uova erano state deposte. Il Programma selvaggina protetta evita di dare un nome agli uccelli, ma su Facebook i fan avevano chiamato gli aquilotti Snap, Crackle e Pop. Quello in ambasce era Snap: non riusciva a tirarsi su per mangiare.
Il mattino seguente, il Programma era bombardato di email, telefonate e commenti sui social media che li supplicavano di salvare Snap. La politica del Programma però è lasciare che la natura faccia il suo corso. Lori Naumann, la loro esperta di pubbliche relazioni, mi ha detto che lo sdegno cresceva di intensità con il trascorrere delle ore. A un certo punto, quel venerdì pomeriggio, si era ritrovata al telefono con una donna che «piangeva a dirotto, inconsolabile». Intanto notò, seguendo l’EagleCam, che uno dei genitori aveva portato una femmina di piccione morta per sfamare gli aquilotti. Sventrata la preda, le aquile avevano trovato dentro un uovo e avevano aperto anche quello per mangiarne il contenuto. Eppure, mi ha detto sempre la Naumann, nessuna delle persone che criticavano il governo perché era pronto a lasciar morire Snap sembrava provare alcun turbamento. Le email continuavano, enfatiche. Alla fine, nel tardo pomeriggio, è arrivata una telefonata dall’ufficio del governatore: anche loro erano tempestati di telefonate. Un paio d’ore dopo, due addetti prelevavano Snap dal nido. L’aquilotto era gravemente ferito, probabilmente perché uno dei genitori lo aveva calpestato senza volerlo. Aveva una grave frattura all’ala e un’infezione generalizzata. Non c’erano speranze di salvarlo e Snap ha dovuto essere soppresso. «Vola alto e libero, piccolo Snap: hai dato una grande lezione a noi umani», ha scritto su Facebook uno spettatore. L’umore sulla Rete era luttuoso ma riconoscente. C’erano faccine tristi e cuoricini rosa. Centinaia di persone hanno ringraziato il Programma per aver aiutato l’aquilotto. Grazie, ha scritto una donna, per «non averci fatto soffrire guardandolo morire».
In Minnesota il pubblico ha trasformato la EagleCam in un’app come un’altra: hanno visto qualcosa che non andava per il verso giusto e hanno cambiato quello che stava succedendo sullo schermo. In realtà non è poi così diverso dal modo in cui abbiamo sempre interagito con la natura fuori dello schermo. Manipoliamo le cose selvatiche del mondo in base alle nostre idee su cosa è giusto e cosa è sbagliato. C’è stata un’epoca in cui la relazione dell’America con le aquile testabianca era meno partecipe. A cavallo del XX secolo le aquile, come tutti gli altri predatori, erano oggetto di una caccia spietata. La gente le vedeva come una minaccia per le pecore e il bestiame di piccole dimensioni. I giornali pubblicavano storie iperboliche su aquile che attaccavano bambini piccoli, accecandoli, sfigurandoli o addirittura portandoli via. Tutto ciò stava portando la specie verso l’estinzione. Ma nel tempo, l’ostilità si tramutò in simpatia. L’uccello è stato uno dei primi animali inseriti nella lista delle specie protette, nel 1973. Ancora oggi, sette anni dopo che è stata dichiarata fuori pericolo, la specie continua a essere protetta dalle leggi federali. Chi si imbatte in una carcassa di testabianca, è tenuto a inviarla al Sepolcro nazionale delle aquile vicino Denver, che poi le distribuisce ai nativi americani per usi religiosi. Lì ora c’è anche Snap. «Riposa in pace piccolino», ha scritto un fan su Facebook. «Ora puoi volare con tutte le aquile fino al Ponte dell’Arcobaleno».
Immagino di sì. I nostri rapporti con gli animali probabilmente apparivano meno sdolcinati quando li vedevamo in termini utilitaristici. Ora i valori emotivi ed estetici hanno prevalso. Quando si tratta di animali, proviamo soprattutto sensazioni: di tenerezza, di empatia, di paura o di sgomento; e nel caso dell’aquila testabianca anche di patriottismo. Ma l’esito paradossale della vicenda di Snap è che forse non uccidere certi animali rappresenta il modo in cui li usiamo oggi: il bisogno che soddisfano è quello di proteggerli. Forse ci afferriamo alle specie che abbiamo deciso di non distruggere come prova della nostra compassione. E forse è per questo che abbiamo puntato delle webcam su di loro: per controllarle ogni volta che vogliamo e vigilare sulla loro incolumità.
(© 2-014 New York Times News Traduzione di Fabio Galimberti)

Jon Mooallem, la Repubblica 22/6/2014