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 2014  giugno 22 Domenica calendario

COM’È POSSIBILE CHE UN PREFETTO INVITI AL SUICIDIO LE MADRI DEI DROGATI


Renzi ovviamente lo ha rimosso, ma solo come prologo alla rottamazione di una Istituzione che già Luigi Einaudi voleva abolire e che oggi da «funzione puramente decorativa» è diventata «un Mostro che sragiona», «la burokrazia ottusa e nera» dello Stato in disfacimento di Jospeh Roth, i detriti marci dell’antica “prefettocrazia” di Salvemini.
Nel suo sfarzoso salotto il signor prefetto Reppucci sembrava il Caccamo di Teocoli, ma in piena ebbrezza tossica, mentre invitava le mamme dei drogati a suicidarsi e spiegava che la droga leggera «nun è ‘na strunzata». E scompostamente addossava il fallimento suo e dello Stato alle famiglie, alla scuola, al volontariato, alla parrocchia: «Mica le forze di polizia possono fare da badante perché la famiglia arretra. Se ‘na madre non s’accorge che ‘o figlio suo si droga è ‘na madre f-a-l-l-i-t-a. Si deve solo suicidare». Dunque, se a Perugia spadroneggiano gli spacciatori, se la città è diventata una capitale del narcotraffico, se i giovani bevono e si drogano, se c’è la morte nelle strade… la colpa non è di chi deve prevenire, lottare e fronteggiare la criminalità, ma delle mamme. Ecco: nessuno rida.
L’errore più grave che si potrebbe commettere è di ridurre questo prefetto a una macchietta d’avanspettacolo e appunto di ridere invece di intristirsi ascoltando il suo sproloquio come un discorso di fine epoca, il requiem d’addio di quella burocrazia italiana operosa ma molliccia, scivolosa ma inesorabile, provinciale e ciceroniana, educativa e fastosa, che è stata preunitaria, fascista, democristiana e postdemocristiana.
Se poi si mette questo documento accanto a quell’altro video dove il prefetto di Napoli — rieccola, la città mortificata! — Andrea De Martino dava in escandescenze e umiliava don Patriciello perché si era permesso di chiamare signora e non “sua eccellenza” il prefetto di Caserta, sembra davvero di sfogliare il “dossier rottamazione” di Matteo Renzi che, «furioso» scrivono le agenzie di stampa «ha convocato Alfano». E tutti capiscono che in altri tempi Reppucci non sarebbe stato rimosso, ma mandato in ferie per poi sbucare in un altro incarico più prestigioso anche se appartato. Non più dunque “promoveatur ut amoveatur” che era lo stigma della Prefettura italiana, i titoli e i gradi dell’insolente immunità, l’alchimia rubata all’eternità della Chiesa. Nel corpo a corpo di questo governo con la macchina dello Stato, la scena di Perugia è l’argomento ultimo e risolutivo, la pistola fumante che il premier stava cercando e che gli arriva come un dono preziosissimo: in latino maccheronico amoveatur ut rottamatur.
C’è infatti la morte del servitore meridionale dello Stato, magnificamente raccontato da “L’ultima Provincia” di Luisa Adorno, in quel gesticolare parodistico di sua eccellenza Reppucci. C’è la fine del blasone estetico dell’alto funzionario nell’abito nero con cravatta che sembra uno dei costumi di scena di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” con la musica epica di Ennio Morricone. C’è la degradazione dell’autorità che diventa nomenklatura nei titoli e nelle divise che in silenzio annuendo fanno corona al prefetto: il procuratore generale, il questore, il colonnello dei carabinieri e il colonnello della Guardia di finanza. E c’è la profanazione finale dei luoghi maestosi che hanno glorificato la nazione nel turpiloquio protocollare tra i ritratti del Perugino e del giovane Raffaello, il soffitto del Cherubini e le volte del Piervittori. Anche il decisionismo da prefetto di ferro, la tradizione che si rifà a Cesare Mori, si spegne nel “facimmo a faccia feroce” alle mamme di Perugia. Addio infine anche al forbito burocratese in carta bollata: Reppucci non usa più “gratissima”, “eccellentissima” e “ benigna attenzione”. Sostituisce l’eloquio del prefetto Marascianno di Camilleri (“La concessione del telefono”) con la parola «strunzata». E nelle tombe non si agitano ma soltanto si rannuvolano i grandi prefetti d’antan, come La Marmora per esempio, il marchese di Rudinì, e Luigi Prezzolini che il figlio Giuseppe descriveva così: «Era un prefetto e un uomo di cultura umanistica che portava con sé, di residenza in residenza, solo un’enorme biblioteca».

Francesco Merlo, la Repubblica 22/6/2014