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 2014  giugno 23 Lunedì calendario

SE IL MECENATE È UNO STRANIERO CHE AMA L’ITALIA


Si contano sulle dita di una mano. Forse di due. Il più celebre è David W. Packard, appartenente alla famiglia che ha dato vita a un colosso mondiale della tecnologia informatica. Da quindici anni spende un sacco di soldi – siamo a una ventina di milioni – per la manutenzione del sito archeologico di Ercolano. Un altro è Thomas Pritzker - suo padre fondò la catena alberghiera Hyatt e il premio d’architettura - che ha donato agli Uffizi 500 mila dollari. E poi Yuzo Yagi, giapponese, imprenditore tessile: sono suoi i due milioni elargiti alla Soprintendenza archeologica di Roma per il restauro della Piramide Cestia. Oppure Tetsuya Kuroda, che ha versato 1 milione 130 mila euro all’Opificio delle Pietre dure per il restauro della Leggenda della Vera Croce di Agnolo Gaddi in Santa Croce a Firenze.
Chiamiamoli mecenati o filantropi: pochi, tanti che siano è a loro, benefattori stranieri, che si guarda quando, con la norma che innalza al 65 per cento lo sgravio fiscale per chi dona soldi ai beni culturali, ci si attende che una messe di quattrini scivoli dalle tasche di imprenditori italiani e dia ossigeno al nostro disastrato patrimonio. Per il quale i fondi pubblici sono scandalosamente scarsi (come ha certificato anche il rapporto di Federculture sui consumi culturali). E sul quale vigilano soprintendenze mortificate dai tagli, con un personale bistrattato che quando, fra poco, andrà in pensione lascerà uffici sguarniti e apprezzatissime competenze senza eredi.
Che il modello sia più Packard o più Yagi non è chiaro. Il ministro Dario Franceschini, però, ha portato entrambi ad esempio e non Diego Della Valle che ha fornito 25 milioni per il restauro del Colosseo. E ha aggiunto, il ministro, che avrebbe chiamato amministratori delegati di aziende pubbliche e private dicendo loro che da adesso, con gli sgravi accresciuti, non hanno più alibi. Strada in discesa dunque per una sana partnership Stato-imprese, una strada spesso tortuosa, dove privati erano gli introiti, pubbliche le perdite? Intanto c’è differenza fra elargizione e sponsorizzazione. La prima è una donazione senza altri fini, agevolata dallo sgravio fiscale. Per la seconda c’è un ritorno d’immagine, c’è la pubblicità: chi finanzia una mostra mette il proprio logo nel catalogo, sulle locandine, ha uno stock di biglietti omaggio e altri vantaggi. Fino ai paradossi. Su molti edifici storici campeggiano gigantografie di orologi e di auto: sono il prezzo pattuito per un restauro che talvolta è immotivato oppure tirato per le lunghe pur di occupare con un marchio preziosi spazi.
Nel 2012 le donazioni da parte di imprese italiane hanno raggiunto i 28 milioni e mezzo (sono calate: nel 2010 erano 32). Ma oltre la metà, 16, vanno allo spettacolo, e 12 alla cultura. Inoltre la sproporzione fra Nord, Centro e Sud è vistosa: 13 milioni sono destinati alla Lombardia e 33 mila alla Basilicata, quasi 3 milioni al Veneto 0 ad Abruzzo e Molise. Grandi beneficiate sono le fondazioni: la Scala (6,8 milioni), l’Aem (1,5), la Bracco (1,2), la Brunello Cucinelli (1). Fra i benefattori ecco A2a, Intesa San Paolo, Banca Popolare di Milano, Tod’s... A 16 milioni, invece, ammontano nel 2012 le donazioni di persone fisiche o di enti non commerciali, in primo luogo le fondazioni bancarie (l’anno precedente, però, erano 26 milioni).
C’è inoltre differenza anche fra Packard e Yagi. «Yagi venne da noi perché voleva donare un milione per la tutela di un’opera d’arte del paese, l’Italia, dove la sua azienda aveva guadagnato molto», racconta Rita Paris, direttrice della Soprintendenza archeologica di Roma. «Gli indicammo alcuni restauri già progettati. E lui scelse la Piramide. Non la conosceva, gliela facemmo visitare e gli preparammo un dossier». Il restauro è iniziato nel marzo del 2013 ed è finito in ottobre, sei mesi prima del previsto. Una parte della Piramide era tornata alla sua candida lucentezza. «Il lavoro andava proseguito», aggiunge Paris, «allora gli abbiamo chiesto se era disponibile a finanziare il restauro completo. Un mese dopo ci ha donato un altro milione: contiamo di finire entro ottobre prossimo». In cambio Yagi non ha voluto nulla. A lavori conclusi una piccola targa ricorderà la sua elargizione.
Packard ha settantatré anni. È approdato a Ercolano nel 2000 creando insieme alla soprintendenza (e dal 2003 al 2013 anche alla British School of Rome) l’Herculaneum Conservation Project, una struttura formata da una quindicina di persone di ottime e diversificate competenze che si occupa della manutenzione del sito, redige progetti, compie indagini scientifiche e interviene nelle urgenze. Ne è responsabile Jane Thompson, un’architetta gallese, che Franceschini ha incluso nel Consiglio superiore dei beni culturali. Fondamentale è stato il ripristino dell’antico sistema fognario che raccoglie le acque piovane e mette Ercolano in gran parte al riparo dai guai che affliggono la vicina Pompei. Packard non ama che si parli di sé, l’unico logo che compare sui pannelli, piccolissimo, è della fondazione. A Ercolano non tutto fila liscio. Ci vogliono anche due anni di trafile burocratiche perché un progetto diventi un cantiere. Ora però si lavora per riqualificare l’area di confine fra gli scavi e la città moderna, che, verso il mare, è terribilmente degradata. D’accordo ministeri, Soprintendenza, Comune e Fondazione Packard, si esproprieranno edifici e alcuni verranno demoliti. Sorgeranno una piazza e un parco con vista sugli scavi: quasi 6 milioni il costo, 3 li metterà Packard.
Durante una cerimonia pubblica, un anno fa, Packard con pragmatismo americano ha spiegato una delle condizioni del buon rapporto pubblico-privato: che ci sia un privato disponibile e non orientato a lucrare e che ci sia un pubblico forte e che funzioni bene. Ma qui cominciano i dolori. Tranne le poche speciali (Pompei o i Poli museali), le soprintendenze non possono incassare direttamente contributi. Occorre avviare complicate procedure o creare associazioni di Amici dei musei che facciano da intermediari. E questo non facilita il rapporto con il donatore. E poi si aggiungono la scarsità di mezzi e di personale, le incombenze burocratiche che complicano nelle soprintendenze la gestione delle donazioni. Franceschini invoca il manager per le grandi strutture museali. Ma forse, si legge in un appello al ministro dei soprintendenti storico- artistici, basterebbe dotare gli uffici di «strumenti contabili e gestionali che consentano di introitare denaro» sul modello dell’Opificio delle Pietre dure, «che dialoga con il mondo intero e si autosostiene, in parte, dal punto di vista economico».
In un articolo sulla rivista online Aedon, Stefano Casciu, soprintendente a Modena, aggiunge un altro elemento: il privato italiano, a differenza dell’americano, fa fatica a «pensare in termini di partecipazione e restituzione alla collettività». Insomma, lo sgravio fiscale aiuta, ma da solo non basta. Eppure Casciu non è sospettabile di prevenzioni essendo protagonista di una positiva eccezione: il finanziamento da parte della Fondazione Cassa di risparmio di Modena (quasi 300mila euro) della messa in sicurezza in un centro di raccolta a Sassuolo di 1.700 opere danneggiate dal sisma emiliano del 2012. Una donazione per un’operazione poco vistosa e non per il restauro di un singolo capolavoro, operazione da rivendersi sul mercato pubblicitario. Invece è del capolavoro che si va a caccia. Del Guercino, del Caravaggio o del Guido Reni. Della celebrata fontana. Senza considerare che le priorità ispirate da criteri di tutela potrebbero essere altre. Ma — è sempre Casciu a sollevare la questione — in Italia sono molto diffuse «idee sulla cultura e su tutela e valorizzazione del patrimonio in termini di entertainment, e non come funzione fondamentale e come attività tecnico-scientifica propria dello Stato, garantita dalla Costituzione, generatrice di identità e collante sociale e di conseguenza di miglioramento economico generale».

Francesco Erbani, la Repubblica 23/6/2014