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 2014  giugno 23 Lunedì calendario

PETROLIO, TASSE E RISCATTI: TUTTI GLI AFFARI DEL CALIFFATO

Mohammed Al Awali adesso fa il capo commesso in una piccola catena di negozi elettrodomestici. Prima ha lavorato in una ditta di trasporti, camion su e giù per tutto l’Iraq, da Bassora al Kurdistan iracheno fin dentro la Turchia. Il commercio è un sismografo infallibile, registra tutto quello che accade in un paese. «Noi gestivamo decine di camion con i nostri associati in varie città del paese, avevamo doppio equipaggio, autisti sciiti e sunniti, sapevamo dove fare i cambi, dove salivano i sunniti e scendevano gli sciiti e viceversa, perché era impossibile entrare in aree nemiche. So che adesso i miei amici si stanno adattando, stanno cercando di capire. Ma una cosa è certa: con questi dell’Isis gli affari riprenderanno, e anzi stanno continuando. Perché loro vogliono fare affari, vogliono fare soldi e ci vogliono far pagare le tasse».
Mohamed è una fonte di informazioni indiretta su quello che l’Isis ha fatto e sta facendo al Nord, vicino al confine con la Siria, e su quanto inizia a fare in città come Falluja o Tikrit che sono più vicine a Bagdad. «Secondo quello che so io è vero che prima hanno rapinato le banche, ma poi spesso hanno richiuso i forzieri e le casseforti per rimetterci dentro un po’ di danaro. Il grosso se lo sono portato verso la Siria, ma quello che serve a gestire le città lo lasciano al controllo dei capi locali». Soltanto l’assalto alla banca centrale di Mosul, una città di 2 milioni di abitanti, ha fruttato all’Isis più o meno 400milioni di dollari. Qualcuno ha raccontato a un giornalista occidentale che quando un tassista ha chiesto a un miliziano “perché ti hanno messo a guardare la banca che avete conquistato?”, quello ha risposto che lì dentro ci sono i soldi con cui vogliono governare l’Iraq».
Sono ambiziosi i pianificatori dell’Isis. L’assalto alla raffineria di Baiji è stato ben organizzato. Hanno fatto saltare un paio di cisterne piene di petrolio, così per terrorizzare le guardie dell’esercito iracheno. Poi hanno sparato solo sul corpo di guardia, sui soldati terrorizzati, senza danneggiare l’impianto. Hanno sequestrato alcuni operai iracheni e turchi, ma non hanno torto loro un capello. Anzi hanno portato le famiglie che vivevano fuori dalla raffineria a parlare con gli assediati per convincerli ad arrendersi. Non ci sono più notizie ufficiali dal governo iracheno, quindi a questo punto è chiaro che l’Isis controlla una raffineria da 300 mila barili di petrolio lavorato al giorno. «Sembra che la produzione non sia ripresa, ma lo faranno presto: stanno cercando i tecnici, ne faranno venire di nuovi».
Mosul è una delle città del Nord Iraq in cui negli anni si erano spostati i cristiani in fuga dal Sud. Invece di crocifiggerli e massacrarli come avrebbero fatto d’impeto in Siria i qaedisti di Al Nusra, quelli dell’Isis hanno usato violenza, ucciso qualcuno, violentato molte donne ma poi si sono fermati. Li hanno terrorizzati e rimandati ai loro lavori, ai loro commerci. «Chiedono una tassa, un’estorsione a tutti i commercianti, a chiunque abbia un’attività», dice il capo-commesso. D’altronde da queste parti la prima cosa che fa chi prende il potere con i fucili è far pagare le tasse.
Una mafia sotto il segno dell’Islam? «Loro si chiamano governo, vogliono uno “Stato” dell’Iraq e della Siria, come farebbero tanti altri. Nei primi giorni l’Isis ha imposto una tassa di 200 dollari a ciascun camion di passaggio, ma adesso stanno abbassando a 150 dollari: sono pieni di soldi, ora vogliono solo consolidarsi e governare mentre combattono più a Sud».
Torniamo al petrolio: da un paio d’anni fra Siria e Nord Iraq gli uomini dell’Isis anche nelle zone che non controllavano perfettamente foravano gli oleodotti e spillavano petrolio che poi rivendevano all’incredibile contrabbando che avvia ogni giorno decine di autobotti a raffinerie compiacenti. Secondo il New York Times a Raqqa avrebbero anche degli impianti di raffinazione rudimentale. Il petrolio pare che venisse anche venduto da bande di intermediari a pezzi dello stesso regime siriano che l’Isis combatte.
Un’altra fonte di reddito sono i rapimenti, le estorsioni. Piccoli episodi contro piccoli commercianti e famiglie ricche nelle zone finite sotto controllo; colpi grossi quando si riesce a mettere le mani su un gruppo di 40 turchi come è successo la settimana scorsa a Mosul nell’assalto al consolato. Non se ne sa più nulla: è probabile che i turchi verranno liberati (se non lo sono già stati) a suon di milioni di dollari.
«Questo ha una logica ben chiara », dice il professor Abdul Jabar della facoltà di Scienze politiche dell’università di Bagdad: «Il loro non è un progetto terroristico: dopo aver fatto terrorismo contro gli americani ed essere stati sconfitti dalla mobilitazione delle tribù sunnite organizzate da Petraeus, l’Isis ha combattuto in Siria e adesso vuole uno Stato ». Usano la violenza per un progetto politico.
Per conquistare Mosul sono stati necessari molti soldi: «Con l’aiuto dei baathisti che sono sul terreno accanto a loro, i capi dell’Isis si sono comprati i generali dell’esercito, i capi della polizia della regione. Gli hanno detto «questi sono i soldi, andatevene, oppure arriviamo noi a sterminarvi». Con milioni di dollari e con centinaia di morti nelle fosse comuni (postate immediatamente su Internet perché tutti sappiano) il movimento terroristico più ricco del mondo si sta costruendo il suo stato: un Califfato petrolifero.
Vincenzo Nigro