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 2014  giugno 23 Lunedì calendario

UN FIORE DI TIMO VINCE LA GUERRA DELL’ACQUA

Il miracolo di un fiore di timo che sboccia nei Territori palestinesi, vale il doppio. Nonostante sia stato annaffiato con acqua nera, perché quella buona la possono usare solo i coloni di Ariel, l’insediamento vicino al campo di Ezdehar Mohammad Haj Al, nel villaggio cisgiordano di Jamain, provincia di Nablus.
Ezdehar Mohammad Haj Al è una signora di 38 anni, invecchiata anzitempo, sposata e madre di 3 figli. La incontriamo in una giornata torrida e ventosa, con l’aria offuscata dalla terra sabbiosa che mulinella e ci finisce, a turno, negli occhi e nella gola. Con la differenza che loro non hanno gli occhiali da sole né una bottiglia d’acqua, grazie a cui io e la fotografa che mi accompagna ci ripuliamo la bocca dai granuli roventi. “L’acqua è troppo preziosa qui, la dobbiamo conservare per farla bere ai nostri bambini, lavarci, pulire i loro vestiti e cucinare oltre che per lavorare il timo”, ci spiega Ezdehar, che sogna ancora di andare all’università per studiare psicologia e capire come funziona la coscienza degli esseri umani, “capaci di ogni forma di brutalità”. Ma intanto, ogni mattina del mondo, del suo mondo ristretto a pochi chilometri, con le altre donne velate del villaggio, pie verso Allah trasfuso nel timo e nei frutti degli olivi che gli crescono accanto, va a scegliere le piantine migliori lo scelgono, per poi pulirle, essiccarle e quindi vederle al mercato, anche in forma di focaccine dal profumo squisito.
FIORI E PROIETTILI
Il timo cresce spontanentamente nei terreni aridi, soleggiati e sassosi, così come gli ulivi, ma, rispetto a queste piante nodose e centenarie, il timo ha bisogno di più acqua. Così come il pomodoro e il cetriolo, gli altri vegetali usati nella cucina palestinese. “Ma Israele mantiene il controllo su tutte le nostre risorse idriche sotterranee e superficiali. A noi palestinesi, in tutte le aree ( A, B, C, ndr) è permesso estrarre solo il 20 % del potenziale stimato della falda acquifera che si trova sotto i nostri piedi, a circa 40 metri di profondità mentre Israele ne estrae ben l’80%, ci dice con la voce roca di rabbia e un sorriso amaro stampato sul volto Malek Allam ( è un nome di fantasia perché l’uomo teme la ritorsione dei coloni vicini), ex agricoltore che vive a Wadi Fouki, l’ennesimo villaggio su cui incombe l’espansione quotidiana di un insediamento colonico. In questo caso, Betar Ellit. “Prima dell’occupazione io e la mia famiglia avevamo 20 ettari di terreno, ereditati dal mio trisnonno, tutti coltivati, negli anni sono scesi a 10, e ora, come vedi è una landa piena di erbacce, abbandonata. Non posso coltivare un terreno senza acqua . Gli israeliani della Joint water mi hanno negato i permessi per costruire i pozzi e quelli che già avevo me li hanno distrutti i soldati della Civil Administration perchè sostengono siano illegali. Anche se c’erano già prima che loro occupassero la nostra terra nel 1967, quando gestivamo noi la vena che scorre qua sotto”. Ora l’agricoltore, all’età di 49 anni deve ricominciare da capo e cercarsi un altro lavoro per sostenere la famiglia composta dalla moglie e 4 figli, tra i quali due bambini di 6 e 8 anni. “Mia moglie si è ridotta a lavorare nelle piantagioni dei coloni finché non troverò un lavoro, dobbiamo pur far crescere i nostri bambini e mandarli all’università. Per questo ora sono disposto anche ad andare a fare lo spazzino a Betar Illit, come alcuni miei amici, ex agricoltori come me, hanno fatto. Non abbiamo alternativa. L’unica speranza per uscire da questo incubo è che i nostri figli studino e si affranchino, anche a costo di andare all’estro, ma se continua così non sarà facile”. Camminiamo, pestando gli arbusti aguzzi, risultato dell’occupazione e del conseguente abbandono involontario dei campi di proprietà di tanti agricoltori. Perché i palestinesi sono, anzi erano, prevalentemente agricoltori, non latifondisti però, piuttosto contadini di piccoli appezzamenti ereditati a fatica nei secoli del dominio ottomano e quindi del mandato britannico. Dobbiamo tenere la suola dei sandali il più possibile parallela ai rovi che dobbiamo inevitabilmente schiacciare, come serpenti tentatori, per procedere verso il nulla. Verso l’abbandono progressivo della terra e della speranza di una vita dignitosa. Un puntino piccolo, poi sempre più grande, nella foschia dello zenith, prende a poco a poco le sembianze di Dror Etkes. Un professore ebreo israeliano che ha fondato l’Ong Kerem ( giardino in ebraico, ndr) Navot. Mi dà una stretta di mano forte, poi arriva subito al punto: “Da anni seguo da vicino la ripugnante violenza fisica e psicologica che i nostri governi hanno pianificato per costringere i palestinesi dei Territori ad abbandonare i loro campi, la loro terra, su cui volano come avvoltoi i coloni, pronti a scendere in picchiata per ghermirla. E sono sempre di più, perché anche loro, come i nostri ultraortodossi usano i figli come arma, l’arma demografica”. Con la complicità del recente governo, che ha tra i suoi ministri più importanti l’ultranazionalista giovane miliardario Naftali Bennet che ha fatto il pieno di voti proprio tra i coloni. Bennet sostiene che l’area C debba essere annessa allo Stato israeliano. “Di fatto è come se lo fosse già – sottolinea Etkes mentre abbraccia Mohammad Mustafa, un altro ex agricoltore che ci ha appena raggiunti su quello che era il suo appezzamento di terreno- perché la guerra dell’acqua, in tutte le sue diaboliche declinazioni, è quella più efficace per costringere i palestinesi ad abbandonare le proprie terre, a diventare dipendenti dalle colonie ebraiche, che sono la causa principale dei loro problemi, e infine ad andarsene, se non fisicamente, perché l’amministrazione israeliana rifiuta loro non solo i permessi per scavare i pozzi, ma anche i permessi per spostarsi da una area all’altra dei Territori occupati, certamente mentalmente”, conclude Etkes. La maggior parte dei civili palestinesi è disillusa e stanca delle finte promesse, dei processi di pace che, come ha scritto il grande scrittore israeliano Abraham Yeoshua - in lotta da sempre con i suoi colleghi Amos Oz e David Grosmann, contro l’occupazione e il regime di apartheid conclamatosi definitivamente con il recente secondo esecutivo Netanyahu -è diventato un guscio vuoto. “ Siamo stanchi al limite del collasso per questo camminare a vuoto, per questo ruotare sul posto senza un risultato, come criceti in gabbia, sono stufo di vedere i soldati israeliani che guardano indifferenti, e spesso complici, i coloni gettare la spazzatura e i loro liquami nei nostri campi, del loro sonno tanto pesante, quanto finto, che protegge gli squadroni dei coloni quando di notte escono dalle loro case, sorvegliate dai militari e da barriere con il filo spinato collegato alla corrente, per bruciarci i nostri raccolti”, dice Mustafa con gli occhi pieni di lacrime. Da tre mesi lavora come cameriere in un bar di Ramallah, la capitale provvisoria dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il sole è ancora accecante alle quattro del pomeriggio mentre beviamo tè alla menta per rinfrescarci dentro la casa di sua madre, a 40 chilometri da dove questo giovane uomo di 29 anni lavora. “Non so quando mi potrò sposare perché il mio lavoro è incerto e i miei campi sono irrecuperabili. Non ho avuto il permesso per scavare nuovi pozzi e quelli che c’erano sono diventati aridi”. Alle cinque mettiamo la testa fuori dalle spesse mura che costituiscono di fatto la casa, con tre mobili, tre, della signora Jasmine, vedova perché il marito è morto l’anno scorso d’infarto, un mattino all’alba, dopo aver visto tutto il suo raccolto carbonizzato dal fuoco dei coloni. Il sole è ancora caldo, sembra impossibile che prima o poi si spenga dietro la collina. I passanti sudati non vedono l’ora che arrivi la brezza fresca del crepuscolo, quando il deserto, che ci circonda, traspira e rovescia la temperatura fino a obbligare tutti a indossare il maglione di lana non appena arriva la notte.
Roberta Zunini