Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 23/6/2014, 23 giugno 2014
I CORPI DISARMATI DELLE DONNE SOLDATO
I francesi lo chiamano le déshonneur. Lì dove nelle stanze di vita quotidiana si respira il terrore che irrompa qualcuno in camerata al buio, come già accaduto, con le docce che spesso e volentieri non sono separate. Per non parlare di quello che avviene sulle navi scuola della Marina, spazi ristretti, minuscoli corridoi. La facilità di nascondersi davanti ai controlli e quella parola che si pronuncia a voce alta e si traduce in ricatto: sono un tuo superiore, la mia parola contro la tua. Il nonnismo, pratica che si è attenuata nel tempo, solo perché è stato eliminato il servizio di leva, ma che ha avuto trasformazioni perfino patologiche. Vita dura, quella delle donne nelle caserme. Hanno dovuto superare l’imbarazzo di essere considerate una quota minore, hanno combattuto perché anche a loro si aprissero possibilità di una carriera con le stellette, ma molte di loro hanno dovuto lasciare, chiedere il congedo. Non tutte ce l’hanno fatta. Problemi di violenza fisica, talvolta, ma anche psicologica, molto spesso peggiore.
GERARCHIA ESASPERATA
Le déshonneur, appunto. Ma la questione degli abusi sessuali nelle caserme esiste. Non emerge nella sua gravità. E questo per tre motivi sostanziali. Il codice penale militare è stato scritto nel 1941, le donne all’epoca non avevano neanche il diritto di votare, figuriamoci se potevano maneggiare armi. Il secondo è che all’interno delle caserme lo strumento della querela non è previsto. Se una soldatessa subisce abusi da un collega maschio può solo rivolgersi al comandante che cerca di risolvere la questione all’interno e si guarda bene dal coinvolgere i magistrati. Terzo, e non ultimo, la difficoltà di definire le competenze tra magistratura ordinaria e militare. “Nel 2013”, dice il procuratore della corte d’appello militare Antonio Sabino, “sono stati ben 96 i casi in cui gli organi di giustizia militare hanno dovuto trasmettere gli atti all’autorità giudiziaria ordinaria e solo 6 i casi in cui si è verificato il contrario”. Una dichiarazione che la dice lunga sul conflitto di attribuzioni che a ogni anno giudiziario viene riproposta anche e soprattutto perché, inclima di spending review, più di una volta ai governi è venuta la tentazione di eliminare i tribunali militari. Eppure l’ambiente è di quelli delicati, come ammette il procuratore capo militare di Roma, Marco De Paolis, perché all’interno delle caserme la “gerarchia è elemento portante della vita quotidiana”. Il superiore può, nella sostanza. “Quando ci siamo trovati a indagare sulla caserma di Ascoli, dopo l’incriminazione del caporal maggiore Parolisi condannato perché colpevole dell’omicidio della moglie, abbiamo scoperto un frammento di vita quotidiana che spesso non affiora. Non è un’emergenza, ma il fenomeno c’è”.
Alla caserma ex Smipar di Pisa la camerata delle donne è a pochi metri da dove morì Emanuele Scieri, in circostanze mai chiarite, sicuramente legate al nonnismo. E solo a revocare il nome Scieri tremano i polsi. Il processo si è concluso con un nulla di fatto, probabilmente verrà chiesta una commissione d’inchiesta, molto più verosimilmente resterà il nome e cognome di un ragazzo e nessun colpevole. La caserma è una delle più rigide, perché i paracadutisti hanno un senso della gerarchia molto spiccato. E il linguaggio usato è appunto quello da caserma. Apprezzamenti, volgarità. Spesso costrizioni a pratiche sessuali perché a chiederlo è un superiore. Tra Livorno e Pisa sui tavoli della polizia giudiziaria ci sono almeno tre fascicoli per violenza che ancora non hanno nomi, perché le indagini sono in fase preliminare, avviate attraverso soffiate. “Un caso come questo, e sappiamo che esistono, potrebbe configurarsi come violenza sessuale”, spiega il magistrato De Paolis, “ma se non arriva una denuncia noi non lo sapremo mai. Sappiamo che c’è il fenomeno. Come ci sono persone che si innamorano e decidono di vivere insieme, ma anche questa ipotesi crea imbarazzo in una comunità come quella. Negli Stati Uniti, per esempio, non è consentito, uno dei due è costretto a congedarsi”.
L’ultima udienza di un processo porta la data di maggio. Tribunale ordinario di Belluno. Un caporal maggiore, cacciato senza troppi complimenti e spogliato della divisa, amava costringere colleghi maschi e femmine a pratiche sessuali davanti ai suoi occhi. Come scrive il Corriere delle Alpi, “costretti a masturbarsi e poi a “portare le prove” del gesto. Insultati, umiliati, puniti con allenamenti massacranti e infine indotti ad abbandonare il Modulo K se non erano all’altezza dei soldati migliori. Puniva tutta la squadra per l’errore di un singolo. Alcuni, i meno bravi, finivano nella stanza dei cani morti”. In questo caso era talmente insostenibile la situazione che la querela è stata fatta e a muoversi è stata la magistratura ordinaria. Più controverso il caso di qualche mese fa, in un paese vicino a Cagliari. Niente nonnismo: fu l’appuntato a palpeggiare la marescialla e a finire sul registro degli indagati per violenza sessuale.
Il caso Parolisi ha fatto scuola: 13 persone rinviate a giudizio e condannate. Tutte estranee all’omicidio, ma condannate, chi per violenza e chi per “violata consegna” che, tradotto, vuol dire sesso tra due consenzienti dentro la caserma e durante il servizio. Episodi emersi perché c’era da indagare su un omicidio, altrimenti nessuno avrebbe saputo niente.
La lista è lunga, e parliamo solo dei casi emersi. In realtà la caserma può trasformarsi in un inferno per i più deboli e per le donne. “L’importante è superare il primo anno”, spiega un’allieva parà, “l’ingresso è traumatico. Poi ci fai l’abitudine e impari a difenderti. Ma se ti rivolgi ai superiori è solo peggio. Devi difenderti da sola, a suon di calci”.
I CASI EMERSI DA AVELLINO A BELLUNO
È accaduto ad Avellino, poche settimane fa, che un caporale sia stato arrestato. Molestava la recluta: gli contestano stalking e un’altra serie di reati. Sempre a guardare in tempi recenti, basta spostarsi nel Bresciano. In una giornata di servizio di pattuglia al perimetro della polveriera militare, una ragazza di vent’anni resta sola con il sergente, dieci anni più anziano. Erano su un Defender, e il più alto in grado fa i complimenti al soldato. La ragazza, lunghi capelli scuri, intimidita anche dal grado del superiore, resta in silenzio, limitandosi -come ha poi spiegato nella sua denuncia -a girarsi verso il finestrino. Ma il sergente non si era limitato ai complimenti e, accostato il mezzo, ha fatto il resto, baci non graditi e palpeggiamenti. Il sergente finisce in tribunale, prima nega e poi patteggia la pena. La Cassazione respinge il patteggiamento e ora l’uomo dovrà vedersela davanti ai giudici in un dibattimento.
Potremmo andare avanti. Basta spostarsi alle scuole di allievi sottufficiali a Viterbo (atti di nonnismo) e all’Accademia di Modena (violenza sessuale). In quest’ultimo caso era un professore civile a palpeggiare le allieve. E a toccarle, a ogni occasione possibile. Questa volta è intervenuto un processo con sentenza confermata in Cassazione: “È violenza sessuale anche una pacca sul sedere”. Ma era il contesto di umiliazione che ha portato alla decisione. Erano allieve, avevano un sogno nel cassetto, diventare militari. Alcune ragazze hanno dovuto lasciare: meglio continuare a guardare la vita senza abbassare gli occhi.
Emiliano Liuzzi