VARIE 23/6/2014, 23 giugno 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - A PALERMO RETATA DI MAFIA
Le microspie piazzate nel ventre di Palermo hanno registrato di recente una certa euforia fra i giovani boss di Cosa nostra. Uno di loro, dal cognome blasonato, diceva: "Il centenario stiamo facendo". E si vantava con gli altri, non sospettando di essere intercettato dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria: "Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto, ha fatto l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro". Così, ancora una volta, il passato e il presente di Cosa nostra sono tornati ad essere intrecciati indissolubilmente. Paolo Palazzotto fu il primo ad essere arrestato per l’omicidio del coraggioso tenente della polizia di New York, nel marzo 1909, ma poi venne assolto per insufficienza di prove, come Cascio Ferro. Adesso si scopre che un discendente di Palazzotto è uno dei nuovi capimafia di Palermo, è finito in manette stanotte, assieme ad altri 90 boss piccoli e grandi arrestati in un grande blitz condotto dai carabinieri del Reparto Operativo, dai finanzieri della Valutaria e dai poliziotti della sezione Criminalità organizzata della squadra mobile, su ordine della procura distrettuale antimafia. In carcere nell’operazione - denominata Apocalisse - sono finiti gli esponenti della nuova cupola di Cosa nostra, che fanno parte dei mandamenti mafiosi di San Lorenzo e Resuttana: nella zona occidentale della città - da viale Strasburgo all’Arenella - i clan erano tornati a imporre a tappeto il pizzo, a negozi e cantieri edili.
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Sono 34 le estorsioni accertate, e solo un operatore economico ha denunciato, rifiutandosi di pagare: è il titolare di una società che sta realizzando la più grande multisala della Sicilia, nell’ex fabbrica della Coca Cola di Palermo. Le indagini sono state condotte da un pool di magistrati composto dai sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Gaetano Paci. Annamaria Picozzi, Dario Scaletta e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Magistrati e investigatori hanno scoperto che Cosa nostra palermitana ha ormai affinato le sue forme di infiltrazione e ricatto sull’economia legale, imponendo addirittura proprie forniture di carne alle macellerie più in vista del centro. Altri boss si erano lanciati invece in un’azione massiccia di riciclaggio, scommettendo i propri tesori illeciti provenienti dal traffico di droga e dalle estorsioni sulle partite di calcio dei campionati nazionali ed esteri.
Il clan che uccise Petrosino
Il discendente dell’assassino di Joe Petrosino si chiama Domenico Palazzotto, ha 29 anni, e di certo una carriera stroncata nel clan dell’Arenella, perché con le sue vanterie ha fatto crollare un segreto che durava da cento anni, il segreto sul primo omicidio eccellente di Palermo. Palazzotto era arrivato al vertice della famiglia da qualche mese, dopo l’arresto del cugino Gregorio, più anziano e più esperto di lui di cose mafiose. Ma anche Gregorio è mafioso dei giorni nostri, e non ha resistito alla tentazione di aprire una pagina Facebook, dove campeggiano messaggi contro i pentiti. Il più colorito è questo: "Non fanno paura le manette ma chi per aprirle si mette a cantare". La procura chiedeva di arrestare anche la moglie di Gregorio, Daiana, perché avrebbe portato gli ordini del marito fuori dal carcere, ma il gip non ha accolto la misura. La donna resta comunque indagata per associazione mafiosa.
Il boss insulta i pentiti su Facebook
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Il politico antimafia comprava voti di mafia
Nell’inchiesta è coinvolto un imprenditore che fu candidato alle elezioni comunali del 2012, nella lista dell’Udc, si tratta di Pietro Franzetti, indagato per corruzione elettorale aggravata: la Finanza gli ha notificato un provvedimento di divieto di dimora a Palermo (la procura chiedeva l’arresto). Secondo l’accusa, il politico avrebbe acquistato 1.500 voti dal clan mafioso dell’Acquasanta, pagando quasi 10 mila euro. Anche se poi Franzetti ha preso soltanto 308 voti, risultando non eletto al consiglio comunale: un’intercettazione lo riprende comunque mentre si accorda con Francesco Graziano, figlio di Vincenzo, boss storico di Cosa nostra. Graziano junor è stato invece arrestato, così come anche Lorenzo Flauto, un altro boss del clan, intercettato nella segreteria politica di Franzetti. Ed è una vera sorpresa, perché l’esponente politico si presentava come imprenditore antiracket, aveva addirittura denunciato delle intimidazioni: nei giorni scorsi, aveva organizzato un flashmob a Montecitorio per chiedere la revoca del vitalizio ai politici condannati per mafia.
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Gli arrestati
Fra i 91 arrestati ci sono volti vecchi e nuovi di Cosa nostra. Ma i cognomi sono quelli di sempre. Il padrino più autorevole fermato questa notte è Girolamo Biondino, fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina.
Biondino, scarcerato da pochi mesi faceva vita da pensionato
Negli ultimi 18 mesi, sono stati scarcerati 36 mafiosi di primo piano del gotha di Cosa nostra, che hanno finito di scontare il loro debito con la giustizia. Fra loro, anche un rampollo di mafia, appartenente alla storica famiglia dell’Acquasanta, Vito Galatolo. Il boss, al soggiorno obbligato a Mestre, si faceva portare il pesce dalla Sicilia.
Galatolo, il capomafia in trasferta
I nuovi capomafia rimasti a Palermo, invece, avevano modi sbrigativi. Sandro Diele, il reggente dello Zen 2, la "Scampia di Palermo" come è stato definito il quartiere, ordinò addirittura un raid a colpi di pistola contro l’abitazione di un ex pentito tornato a Palermo, Raimondo Gagliardo. Sembra quasi una scena di Gomorra.
MEGLIO PERDERE LA LIBERTA CHE L’ONORE E LA DIGNITA
APRIAMO QUESTI CANCELLI AMNISTIAAA
ANCORA PALAZZOLO
Da qualche mese, il suo nome era ormai in cima alla lista degli scarcerati eccellenti, la lista dei boss che hanno finito di pagare il loro debito con la giustizia e sono tornati in libertà. Girolamo Biondino, 65 anni, fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina, veniva ritenuto uno dei capimafia più autorevoli di Palermo. Ma lui faceva di tutto per non apparire: andava in giro con l’autobus, non partecipava a pranzi con altri mafiosi, faceva una vita da pensionato. Eppure, i poliziotti della sezione Criminalità organizzata della squadra mobile di Palermo sono riusciti a intercettare i suoi ordini. Era lui il nuovo capomandamento di San Lorenzo. E questa mattina è fionito di nuovo in cella, il suo nome è nell’elenco dei 91 arrestati dell’operazione Apocalisse.
Ad aprile, Biondino era stato arrestato per scontare un residuo di pena di due anni: gli era stato notificato un soggiorno in una casa di lavoro. Questa mattina, i poliziotti l’hanno portato in carcere, dove è probabile che sconterà un’altra lunga condanna, perché è accusato di associazione mafiosa ed estorsioni. Sarebbe stato lui a ordinare l’imposizione del pizzo ai negozi di viale Strasburgo e ai cantieri edili di San Lorenzo impegnati nella ristrutturazione di alcuni edifici.
Bondino è uno dei 36 mafiosi di primo piano scarcerati negli ultimi 18 mesi. A marzo, la lista era stata presentata dalla Dia alla commissione parlamentare antimafia in visita a Palermo. La lista degli scarcerati eccellenti era finita anche all’attenzione del Viminale dopo gli ordini di morte di Totò Riina lanciati dal carcere nei confronti del sostituto procuratore Nino Di Matteo.
"Su moltissimi delitti di mafia abbiamo solo dettagli su chi ha fatto cosa, ma mancano ancora i mandanti di tanti, troppi delitti. Forse non servirebbero più solo le voci dei pentiti della criminalità organizzata ma quelle di ex Capi di Stato, ministri dell’Interno, o capi dei servizi segreti a spiegarci cosa realmente è avvenuto"
l’analisi di Attilio Bolzoni
VERI MANDANTI DI PORTELLA
DALLA CHIESA PIO LA TORRE FALCONE BORSELLINO MATTARELLA
CORRIERE.IT
Novantacinque persone sono state arrestate a Palermo da carabinieri, polizia di Stato e Guardia di finanza nell’operazione antimafia da loro chiamata «Apocalisse» e che ha riguardato i clan dell’area occidentale della città, e in particolare i mandamenti di Resuttana e San Lorenzo. Sequestrati, inoltre, beni per diversi milioni di euro. Associazione mafiosa, estorsione, danneggiamento e altri reati sono contestati a vario titolo dalla Dda di Palermo che ha coordinato le indagini. Ricostruito l’organigramma dei due mandamenti, con l’identificazione di capi e gregari che negli ultimi anni hanno sottoposto a una soffocante pressione estorsiva numerose imprese edili e attività commerciali e hanno esercitato un diffuso condizionamento illecito dell’economia locale.
«Non ho paura delle manette, ma di chi per aprirle si mette a cantare»
Gregorio Palazzotto, titolare di una ditta di traslochi, secondo gli investigatori sarebbe il capo della cosca dell’Arenella. È quanto emerge dall’operazione Apocalisse sfociata in una novantina di arresti a Palermo. Palazzotto si trova in carcere, ma aveva aperto un profilo Facebook da dove insultava i pentiti. «Non ho paura delle manette, ma di chi per aprirle si mette a cantare». Attraverso la pagina sui social faceva rivendicazioni contro il sovraffollamento delle carceri e chiedeva l’amnistia.
IL PAPA SCOMUNICA I MAFIOSI (CDS DI IERI)
DAL NOSTRO INVIATO SIBARI (Cosenza) — «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono sco-mu-ni-ca-ti». Francesco aveva preparato un testo nel quale «per la fede nel Dio che è amore» esortava a «rinunciare a satana e a tutte le sue seduzioni», al «male in tutte le sue forme», agli «idoli del denaro, della vanita, dell’orgoglio e del potere». Poi ha scritto un’aggiunta all’ultimo: «La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune». Ma non era ancora abbastanza, e Francesco ha alzato lo sguardo verso le duecentocinquantamila persone sparse nella piana di Sibari, duemilasettecento anni di civiltà nel luogo dove sorgeva la più splendida e leggendaria delle colonie greche, fondata dagli Achei nell’ottavo secolo avanti Cristo, distrutta alla fine del sesto dalla Crotone di Pitagora e ricostruita da Pericle nel quinto con il nome di Turi, una meraviglia di agrumeti e peschi e ulivi tra i rilievi scabri del Pollino e l’azzurro dello Jonio, una terra «tanto bella» che non merita tutto questo. Così Francesco durante la messa, nell’omelia, ha proclamato a braccio una cosa che un Papa non aveva mai detto, fatto una cosa mai fatta: ha scomunicato i mafiosi, sillabando la parola. Non c’è bisogno di atti formali, è più di una scomunica automatica: il Papa afferma dall’altare che i mafiosi sono fuori dalla Chiesa, punto.
Le parole di Bergoglio vanno oltre l’anatema gridato da Wojtyla nella Valle dei Templi il 9 maggio 1993, «una volta, verrà il giudizio di Dio!», o l’invito ai giovani scandito da Benedetto XVI a Palermo, il 3 ottobre 2010, «non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte in-com-pa-ti-bi-le col Vangelo!». Francesco va pure al di là di ciò che lui stesso disse a marzo nell’incontro con don Luigi Ciotti e l’associazione Libera, l’invito «in ginocchio» a convertirsi «per non finire all’inferno: è quello che vi aspetta, se continuate su questa strada». La mattina, appena arrivato nella diocesi di Cassano allo Ionio, era andato nel carcere di Castrovillari dove è recluso il padre di Cocò Campolongo, il bimbo di tre anni ucciso a gennaio in un agguato e bruciato in auto assieme al nonno. Tra gli altri ha parlato col genitore e le due nonne, ha detto loro di riferire anche alla madre che «prego per lui continuamente: non disperate», e sospirato: «Mai più bimbi vittime di tali atrocità, mai più vittime della ‘ndrangheta». Poi la visita ai malati, l’incontro con i sacerdoti («Aiutate le famiglie, siate operai e non impiegati»), il pranzo nel seminario con i poveri della Caritas e i ragazzi della comunità terapeutica Saman fondata da Mauro Rostagno, la sosta di preghiera vicino al passaggio a livello dietro la parrocchia di San Giuseppe, il luogo dove a marzo fu ucciso a sprangate don Lazzaro Longobardi (tra i 140 detenuti nel carcere c’era anche Dudu Nelus, l’uomo accusato dell’omicidio, ma non si è fatto riconoscere dal Papa).
Alla messa pomeridiana a Sibari, i fedeli sono il doppio del previsto e restano in attesa per ore, il vento dal mare a mitigare il sole. Francesco non li delude, parla del Corpus Domini e dice «non abbiamo altro Dio all’infuori di questo!» fino a scandire: «Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione. Quando non si adora il Signore si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le violenze di questo peccato». La ‘ndrangheta è «adorazione del male» e bisogna reagire: «Questo male va combattuto, va allontanato. Bisogna dirgli di no. La Chiesa, che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, bisognosi di speranza».
La malavita «si nutre di coscienze addormentate e perciò conniventi» ma «qui c’è una Chiesa impegnata a risvegliarle», dice nel saluto al Papa il vescovo Nunzio Galantino che per la messa non ha voluto fondi pubblici e in prima fila ha fatto sedere malati e poveri, lasciando le autorità dietro. Prima delle elezioni aveva intimato ai preti di non appoggiare nessuno né accettare favori, «piuttosto lasciate che crollino le chiese». Ora sorride: «Si può pensare a contropartite e interessi personali. Il collateralismo si paga». La rivoluzione di Francesco è il ritorno all’essenziale. Il Papa che invita i fedeli a «porre al centro le necessitàdei poveri e degli ultimi» e i giovani a «opporsi al male, a ingiustizie e violenza con la forza del bene, del vero e del bello». Il Papa che si era congedato dagli «amici» detenuti così: «Pregate per me, perché anche io sbaglio, anche io ho bisogno di fare penitenza».
Gian Guido Vecchi
FELICE CAVALLARO IERI SU CDS
PALERMO — C’è un dettaglio che accomuna la scomunica di Francesco al monito lanciato da Wojtyla contro i mafiosi. Perché ieri in Calabria il Papa a un tratto ha parlato «a braccio», come accadde nel maggio del ’93 fra i Templi di Agrigento quando Wojtyla tuonò fuori dai discorsi scritti, dopo un incontro privato e struggente con i genitori di Rosario Livatino, il giudice ragazzino diventato beato. E stavolta l’anatema scatta dopo l’incontro di Bergoglio con le nonne di Cocò, il bimbo di 3 anni ucciso e bruciato.
Ecco l’emozione che ritorna, il nesso che porta tanti sacerdoti di trincea a gioire perché vedono confermato il loro percorso avviato ancor prima del ‘93, come fa nel cuore malato di Palermo, all’Albergheria, Cosimo Scordato, pioniere dei parroci antimafia, autore di un volumetto fresco di stampa, «Mafia, liberaci o Signore»: «Va sottolineata la chiarezza con cui viene fuori in modo incontrovertibile l’incompatibilità fra Chiesa e mafia, una distanza netta anche da ‘ndrangheta e corruzione politica».
La stessa distanza che non si avvertiva quando negli anni Settanta tanti scapestrati ragazzi dell’Albergheria cominciarono a considerare un mito quel parroco con la chitarra e il cardinale Pappalardo chiudeva le porte delle chiese ai boss. Poi spalancate da Scordato a divorziati e gay che, ripete la domenica, «non sono peccatori perché l’amore riscatta l’uomo, al contrario di chi si macchia del peccato di mafia, cioè idolatria del boss, cultura del dominio, della violenza, della morte...».
Di qui una incompatibilità che don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, considera una conferma assoluta a quel percorso richiamando la profetica rivelazione di un pentito come Francesco Marino Mannoia: «Fu lui il 19 agosto 1993 a dire all’Fbi che “nel passato la Chiesa era considerata dalla mafia sacra e intoccabile”, ma che stava cambiando tutto. E un mese dopo uccisero don Puglisi. Da allora in tanti abbiamo lavorato per una Chiesa capace di interferire, illuminare le coscienze, scuotere i cristiani. Parlare chiaro è il contrario dell’ipocrisia. Ma tanti di noi sono stati spesso troppo tiepidi. Dobbiamo imparare ad avere più coraggio portando la parola di Dio che non fa sconti. Un lavoro ancora lungo. Perché oggi ci misuriamo con una mafiosità diffusa che è il vero patrimonio delle mafie, prima ancora di quello economico».
Come dire che bisogna lavorare sulle coscienze. Come prova a fare il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, nella diocesi dove si muoverebbe la primula di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Un vescovo pronto a chiudere le porte ai mafiosi che chiedessero cresime o funerali: «Loro devono sapere con chiarezza qual è la posizione della Chiesa e non aspettarsi trattamenti diversi perché non dipende dal singolo sacerdote. Per delitti di mafia gravi, per le efferate azioni provate da sentenze per cui scattano ergastoli e condanne pesanti la linea è netta e ufficiale, suggellata dalle parole di papa Francesco».
Linea ad Agrigento praticata da anni, da quando monsignor Francesco Montanegro negò i funerali religiosi al capomafia di Siculiana arrestato la settimana prima dalla polizia. Una «ovvia» scelta di campo spesso suggerita ai giovani, durante i laboratori di legalità, da suor Fernanda Di Monte che a Palermo cura la libreria delle suore Paoline di fronte alla Cattedrale: «È chiaro che la Chiesa non c’entra niente con i mafiosi. Basta ricordare i loro rituali. Non si può fare del male pensando di operare per il bene. E la condanna di papa Francesco è una conseguenza delle loro stesse azioni perché chi ammazza o chiede il pizzo si autoesclude automaticamente. La scomunica se la danno da soli comportandosi a loro modo».
Felice Cavallaro
LUIGI ACCATTOLI IERI SU CDS
Finalmente un Papa dice che «i mafiosi sono scomunicati» e tutti capiamo l’antifona: della rivoluzione di Francesco fa parte una semplificazione del linguaggio che lo espone a critiche all’interno della Chiesa, ma che rende comprensibili alle moltitudini le sue parole e a volte — come in questo caso — le mostra ispirate al «sì sì no no» del Vangelo.
A partire dal 1944 e fino a ieri, vescovi e Papi avevano condannato con parole di fuoco — e di un fuoco sempre più vivo — le mafie, ma una «scomunica» così inclusiva ed estensiva, mirata ai «mafiosi» in generale, non era mai stata pronunciata.
La prima condanna con l’uso della parola scomunica è contenuta in una lettera collettiva dell’episcopato siciliano che ha la data del primo dicembre del 1944: «Sono colpiti di scomunica tutti coloro che si fanno rei di rapine o di omicidio ingiusto e volontario». Il riferimento — spiegano i canonisti — è ai «delitti di mafia», che vengono sanzionati con la scomunica ma senza che venga esplicitata la natura mafiosa di essi.
Nel 1952 la stessa pena viene confermata dal Secondo Concilio plenario Siculo con queste parole: «Coloro che operano rapina o si macchiano di omicidio volontario — compresi mandanti, esecutori, cooperatori — incorrono nella scomunica riservata all’ordinario» (dalla quale cioè può assolvere solo il vescovo del luogo). Ora è più chiaro il riferimento alla mafia, che tuttavia non viene ancora nominata.
La parola «mafia» arriva nel 1982, con un documento della Conferenza episcopale siciliana che dopo l’uccisione del prefetto Dalla Chiesa conferma le pene del 1944 e del 1952 con questa premessa: «A seguito del doloroso acuirsi dell’attività criminosa che segna di sangue e di lutti la nostra regione, i vescovi, in forza della loro responsabilità di pastori, riaffermano la loro decisa condanna [...] sottolineando la gravità particolare di ricorrenti episodi di violenza che spesso hanno come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita».
Il documento era accompagnato da una «nota» che chiariva le conseguenze di quel tipo di scomunica, avvertendo che «la condizione di scomunicato emergerà quando l’autore di uno dei due delitti si accosterà alla confessione per essere assolto dal peccato: il sacerdote lo informerà che non può assolverlo, in quanto colpito da “scomunica” che i vescovi hanno “riservato” a se stessi: dalla quale, cioè, soltanto loro possono assolvere». In sostanza: quella scomunica — in vigore ancora oggi — non colpisce chi fa parte di una cosca, ma chi compie una rapina o un omicidio, o ne è il mandante, o il cooperatore. Non è l’associazione mafiosa a essere causa di scomunica, ma il delitto in generale, compreso quello mafioso.
È chiara dunque la novità delle parole dette ieri dal Papa. «I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati». I mafiosi tutti, non solo quelli che compiono stragi. Francesco ha dunque tagliato con un colpo solo un nodo attorno al quale la Chiesa siciliana prima e quella italiana dopo si sono arrovellate per settant’anni. Neanche il famoso monito lanciato da papa Wojtyla nel maggio del 1993 in visita ad Agrigento — «Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio!» — l’aveva sciolto, in quanto il Pontefice polacco ebbe cura di non pronunciare la parola «scomunica».
L’ultimo documento della Cei che tratta della criminalità organizzata è del 2010, «Chiesa italiana e Mezzogiorno»: ha parole durissime sulle mafie ma non usa il termine scomunica: «Riflettendo sulla loro testimonianza (dei martiri di mafia), si può comprendere che, in un contesto come quello meridionale, le mafie sono la configurazione più drammatica del male e del peccato. In questa prospettiva, non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato».
Parole tremende, ma tra le quali non figura la «scomunica». Durante la preparazione del documento alcuni vescovi — soprattutto siciliani — avevano suggerito di introdurre quel termine ma non ebbero successo. Nel corso dell’assemblea della Cei che si tenne ad Assisi nel novembre del 2009 quei vescovi proposero che il documento dell’intero episcopato italiano facesse propria alla lettera questa affermazione, contenuta nel paragrafo 12 della nota «Nuova evangelizzazione e pastorale» pubblicata nel 1994 dalla Conferenza episcopale siciliana: «La mafia appartiene, senza possibilità di eccezioni, al regno del peccato e fa dei suoi operatori altrettanti operai del maligno. Per questa ragione, tutti coloro che in qualsiasi modo deliberatamente fanno parte della mafia e a essa aderiscono, o pongono atti di connivenza con essa, debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori dalla comunione della sua Chiesa».
Neanche in quel testo c’era la parola «scomunica» ma a essa alludeva l’espressione «fuori dalla comunione». Nella Chiesa Cattolica il parto di una parola può risultare straordinariamente difficile. In questo caso è stato necessario un taglio cesareo operato personalmente da papa Bergoglio.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it