Tiziana Barillà, Left 21/6/2014, 21 giugno 2014
PAROLE IN LIBERTÀ. ERRI DE LUCA
«Le parole sono importanti», urla Nanni Moretti nel film Palombella rossa mentre schiaffeggia una giornalista di cui non gradisce il linguaggio. Non è uno schiaffo ma un processo quello che il prossimo 28 gennaio attende lo scrittore Erri De Luca. Perché le parole sono importanti anche alla procura di Torino, che lo ha rinviato a giudizio per «istigazione a delinquere». «La Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti», aveva risposto lo scrittore napoletano commentando l’arresto di due militanti NoTav in un’intervista del primo settembre su Huffington Post. I sabotaggi secondo De Luca «sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile». Secondo i pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino con queste parole lo scrittore ha favorito il compimento di reati contro la grande opera: «Quell’intervista aveva la capacità di suscitare dei comportamenti, che poi in concreto si sono verificati», sostiene l’accusa. «Ma io sono uno scrittore, non posso che istigare alla lettura», replica a left Erri De Luca. «Perciò considero abusivo il fatto che vengano prese le mie parole come responsabili di atti altrui». Le parole possono essere i “mandanti” di reati? Il Paese si divide. Anche perché quando a pronunciarle sono i politici, per esempio, smettono di essere “importanti” da un punto di vista penale. Berlusconi, Borghezio, Bossi non devono temere né schiaffi né processi. Possono dormire sonni tranquilli, cullati da un’opinione pubblica assuefatta. Eppure di frasi pronunciate da politici che istigano a delinquere sono piene le pagine dei giornali. Certo, i parlamentari godono dell’immunità parlamentare nello svolgimento delle proprie funzioni. Ma ciò non li rende liberi di promuovere tra i loro elettori l’esecuzione di reati. Perché le parole dei politici sono prese meno in considerazione? «Gli ultimi sono stati anni di deregolamentazione», commenta il sociologo Alberto Abruzzese. «Un tempo si era portati a ritenere che il parere di un politico dovesse essere perfettamente equilibrato, dentro i principi dello Stato e della cittadinanza. Adesso la politica ha scelto le espressioni ad effetto. Sono venute meno le regole di buon costume istituzionale e la comunicazione pubblica permette qualsiasi eccesso, come in una conversazione tra parenti».
DOVE FINISCE LA LIBERTÀ
Opinioni o inviti a violare la legge? Dove finisce il diritto di dire quello che si pensa? «il terreno è scivoloso: parliamo della libertà di manifestazione del pensiero», risponde Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza di Roma. «L’articolo 21 della nostra Costituzione ci permette la massima libertà di esprimere le nostre opinioni, per questo i pm, in un caso come quello di De Luca, dovranno dimostrare la connessione diretta tra le parole e l’azione», spiega il costituzionalista. «D’altra parte è un principio liberale di antica tradizione, che ha sempre garantito la possibilità di esprimere anche opinioni urticanti, che non piacciono a chi le ascolta o tanto più ai poteri. Se la libertà di parola venisse delimitata solo alle parole convenienti, educate e rispettose non avrebbe ragion d’essere».
Il confine è labile: i pm accusano Erri De Luca di istigazione a delinquere e lo scrittore si difende appellandosi proprio all’art. 21. Tra istigare e dire quello che si pensa «non vi è alcuna differenza», dice l’avvocato Roberto Lamacchia, penalista e presidente dell’Associazione giuristi democratici. «A meno che i pm non dimostrino resistenza di un nesso di causa tra le parole utilizzate dall’indagato e i fatti compiuti da chi ha commesso il reato. In questo caso, ritenere che vi sia un nesso di causalità, è francamente un po’ difficile», ironizza il legale.
Sul tema la giurisprudenza è molto complessa. Gli interventi sia della Corte costituzionale – con una sentenza del 1970 – e della Cassazione poi – nel 2009 – sono «di carattere restrittivo, cercano di delimitare lo spazio del reato di istigazione», assicura Azzariti. In parole povere «non è sufficiente esprimere un’opinione per quanto diretta a istigare un reato, ma questa opinione deve essere anche idonea a far commettere il reato», spiega il costituzionalista. «E se non si può dimostrare un’immediata successione di eventi tra parole e azione, allora il reato non esiste. Perché la parola da sola, quale che essa sia, non può valere di per sé come incentivo all’azione». Azzariti ha pochi dubbi: «Quella di Erri De Luca è un’opinione, una valutazione di carattere politico e generale, non ha offeso né il buon costume né una persona», chiosa. «Pensare che le azioni si siano verificate solo perché Erri De Luca ha fatto un’intervista mi sembra strano. Che i più “radicali” tra i NoTav si siano fatti influenzare in modo diretto da uno scrittore, seppur molto amato, mi sembra difficile. Evidentemente la situazione è più complessa, imputare tutto a delle parole mi sembra una forzatura».
A CHI LA SPARA PIÙ GROSSA
Corre l’anno 2000: Silvio Berlusconi giudica «moralmente giusto evadere le tasse che superano il 50 per cento dei redditi» perché «è legittima difesa». Non pagare le tasse è un reato e quello che parla è il presidente del Consiglio, eppure il caso viene liquidato come una delle tante “sparate” di B. Ma il Cavaliere deve scender da cavallo dinanzi alla Lega nord, le cui dichiarazioni sul filo con il reato di istigazione non si contano più. Il padre delle provocazioni in camicia verde, Umberto Bossi, ha all’attivo due condanne in via definitiva: la prima è istigazione a delinquere per aver incitato i suoi, in due comizi del 1995 a Bergamo, a «individuare i fascisti casa per casa per cacciarli dal Nord anche con la violenza» (1 anno, nel 1999); la seconda nel 2007 per vilipendio alla bandiera italiana, quando nel 1997 dichiarò: «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo» (1 anno e 4 mesi, commutati in 3mila euro di multa e poi interamente coperti da indulto). Altri tempi, quelli delle condanne. Gli anni passano, Bossi non cambia stile, ma i pm sono meno “attenti”: nel 2013 il Senatur rispolvera la guerra civile: «Meno male che, qui in Valtrompia, ci sono ancora le armi. Un giorno serviranno». Ma non viene incriminato. Le dichiarazioni shock dei leghisti vanno oltre l’orgoglio padano. Mario Borghezio definisce «condivisibili» le idee dello stragista norvegese, Anders Behring Breivik, autore dell’attentato di Oslo (estate 2011). Poi, al convegno del movimento francese di estrema destra Bloc identitaire, Borghezio lancia tra gli applausi il suo anatema ariano: «Viva i bianchi d’Europa, viva la nostra identità, la nostra etnia, la nostra razza: quando la nostra patria viene invasa, bisogna bastonare» (autunno 2012). Perché Borghezio, per esempio, non viene incriminato? «Valgono gli stessi principi che tutelano Erri De Luca», risponde Azzariti. «Anche per le opinioni di Borghezio, seppur più irritanti di quelle di De Luca». Il diritto di esprimere la propria opinione ha pochi limiti. Solo due, secondo il nostro ordinamento: il rispetto del “buon costume” previsto dalla Carta e della dignità personale previsto dal codice penale. Ma in quest’ultimo caso per perseguire il reato è necessaria la querela della persona offesa. Anche qui a “fare dottrina” è Mario Borghezio. Nel 2013, durante la trasmissione radiofonica Un giorno da pecora, a Radio2, definisce l’allora ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge «una scelta del cazzo, un elogio dell’incompetenza». Istigazione all’odio razziale? No, una pessima uscita. E nessun procedimento penale. Perché Borghezio, come gli altri rappresentanti del Parlamento, gode di una garanzia costituzionale ad hoc: l’art. 68 della Costituzione, che fornisce «una tutela rafforzata alla libertà di manifestazione del pensiero dei nostri rappresentanti», spiega Azzariti. «Anche nel caso di Borghezio non condividerei una richiesta di autorizzazione a procedere se l’accusa si limitasse a opinioni politiche per quanto strampalate». E infatti «i rappresentanti del Parlamento si trincerano, giustamente, dietro il fatto che quelle certe espressioni sono frutto della sua azione politica», conferma il penalista Lamacchia.
«CONFERMO TUTTO. E NON È REATO»
«Quello che dico lo rivendico. Proteggo le mie parole ribadendole, non ritrattandole», dice un deciso De Luca. Che sul rinvio a giudizio aveva scritto: «Processarne uno per scoraggiarne cento: questa tecnica che si applica a me vuole ammutolire. È un silenziatore e va disarmato». Per la difesa, infatti, si tratta di un processo alle parole: «Quando il cantautore Pietrangeli scrisse “prendete la falce e impugnate il martello/ scendete giù in piazza e picchiate con quello” avrebbero dovuto processare anche lui?» provoca il legale dello scrittore, l’avvocato Gianluca Vitale. Che non ha dubbi: il vero motivo del pugno duro con De Luca è il contesto. «La Val di Susa», conferma lo scrittore imputato, «è un’area militarizzata per imporre con la forza e la prepotenza un’opera micidiale a una piccola popolazione». D’altronde la stessa procura di Torino ha già usato la mano pesante con 4 attivisti NoTav – accusati di terrorismo – e con il leader storico Alberto Perino, accusato di vilipendio alle forze armate e poi assolto perché il fatto non sussiste. Insomma, ciò che altrove è trascurato, in Val di Susa diventa terreno di scontro. «È una questione molto calda, a parte De Luca e chi si esprime pro o contro, lì c’è un conflitto irriducibile», commenta Abruzzese. «Perché sono stati sfruttati più gli elementi di scontro che le possibilità di mediazione. È un conflitto dato per irrisolvibile e pertanto produce violenza». Nel tritacarne della Tav non poteva mancare Beppe Grillo, accusato dal democratico Fausto Raciti di «istigazione ai militari a disobbedire alle leggi». L’episodio incriminato accade a febbraio, quando il leader dei 5 stelle sul suo blog chiede ai vertici di polizia, carabinieri ed esercito di schierarsi con il movimento dei Forconi. Il procuratore capo di Genova Michele Di Lecce smentisce l’esistenza di un fascicolo su Grillo, ma aggiunge: «Per la lettera aperta ai capi delle forze di polizia, sono arrivati numerosi atti da diverse procure dove risulta già indagato». Come Torino, dove Grillo il 16 giugno è stato condannato a 4 mesi «per aver violato i sigilli dei carabinieri sulla porta della baita No Tav in Val Clarea», dimostrandosi «sprezzante degli avvertimenti», scrive il giudice Elena Rocci. I pm che avevano mosso l’accusa a Grillo sono A. Rinaudo e A. Padalino, gli stessi dell’indagine su Erri De Luca.